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mardi, 01 décembre 2009

Fascismo, Nazionalsocialismo, gli Arabi e l'Islam

Fascismo, Nazionalsocialismo,

gli Arabi e l’Islam

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Ex: http://www.rinascita.info/

  
 

 

 

Giovanna Canzano ha incontrato per Rinascita lo scrittore e storico Stefano Fabei

…“L’Italia fu il primo Stato europeo ad appoggiare la resistenza palestinese contro la potenza mandataria, cioè la Gran Bretagna, e contro i sionisti e il loro progetto di insediamento in Terrasanta. Tra il settembre del 1936 e il giugno del 1938 l’Italia versò al Gran Mufti, che guidava la rivolta contro le forze militari inglesi e contro l’immigrazione ebraica, circa 138.000 sterline, circa 10.000.000 di euro attuali.
Tale contributo fu voluto dal Duce in ragione della posizione assunta dall’Italia nei confronti del nazionalismo arabo…” Stefano Fabei

La politica filo-araba del fascismo aveva un fine prettamente idealistico o politico-ideologico o sottintendeva anche a un discorso territoriale?
 

Nei primi otto anni di potere Mussolini non portò avanti un’autonoma politica araba per diverse ragioni: la politica estera italiana aveva come punto di riferimento quella inglese e dall’andamento dei rapporti con la Gran Bretagna dipendeva l’atteggiamento di Roma verso gli arabi; inoltre gli impulsi a una politica estera rivoluzionaria, verso questa parte del mondo, sostenuta dai fascisti più dinamici, erano soffocati dall’influenza esercitata sul regime da nazionalisti e cattolici conservatori.
Nella seconda metà degli anni Venti il Duce, per quanto riguarda il vicino Oriente, tentò di creare un contrappeso alla posizione storica di predominio dell’Inghilterra e della Francia e assumere in qualche modo la loro eredità mediante l’influenza culturale, economica e politica italiana in Siria, in Palestina, in Egitto e sul Mar Rosso. Per questo obiettivo si schierò al fianco degli arabi, che però scarsamente ricambiavano le simpatie di Roma, dato che era in corso la riconquista della Libia, colonia che, secondo gli italiani, doveva essere allargata a ovest con la Tunisia, ritenuta importante dal punto di vista strategico.
reichafgh.jpgL’area su cui l’Italia mirava a esercitare il controllo comprendeva la penisola araba, l’Iraq, la Siria, la Palestina, l’Egitto, il Maghreb e la costa orientale africana fino al Tanganica, tutti Paesi alla ricerca dell’indipendenza. I movimenti anticolonialisti in lotta contro la Francia e l’Inghilterra non arrivavano, allora, ad azioni unitarie di vaste proporzioni: la rivoluzione del Partito Wafd in Egitto (1919-1920), il movimento Destour in Tunisia (1922-1929), o anche i fermenti antisionistici in Palestina (1922-1929), permettono di concludere che le intenzioni italiane potevano realizzarsi solo contro la resistenza araba e franco-britannica. 
Fu dall’inizio degli anni Trenta che la politica araba del regime cominciò a caratterizzarsi in senso più autonomo. L’Italia tendeva adesso a presentarsi come “ponte” tra Oriente e Occidente e a diventare un punto di riferimento per le nazioni islamiche. Tra il 1930 e il 1936 Roma cercò di accentuare l’azione culturale ed economica in Medio Oriente e nell’area arabo-islamica in generale. Senza dubbio un’iniziativa tendente ad accentuare tale programma fu l’inizio a Bari della Fiera del Levante. Nel 1933 e nel 1934 furono organizzati a Roma, sotto il patrocinio dei Gruppi universitari fascisti, i Guf, due convegni degli studenti asiatici, e Radio Bari iniziò le sue trasmissioni in lingua araba nel maggio del 1934. Le linee direttive della politica araba italiana emersero il 18 marzo di quell’anno dal discorso che il Duce pronunciò all’assemblea quinquennale del regime in cui disse che di tutte le potenze occidentali la più vicina all’Africa e all’Asia era l’Italia, chiarendo di non pensare a conquiste territoriali, ma a una politica di collaborazione con le nazioni arabe. Il Mediterraneo doveva riprendere la sua funzione storica di collegamento fra l’Est e l’Ovest. In tale contesto sono da inserirsi la creazione, nel giugno 1935, dell’Agenzia d’Egitto e d’Oriente con sede al Cairo, come di altre istituzioni come l’Istituto per l’Oriente e l’Istituto orientale di Napoli, centri di attività culturale, ma anche politica.
 
Quali sono state le principali differenze tra la politica araba del fascismo e del nazionalsocialismo?
Al contrario dell’Italia, il Terzo Reich aveva, nei Paesi arabi, obiettivi solo economici. Dopo la sconfitta del 1918, la Germania aveva perso le sue poche colonie e con esse gran parte dei mercati interessanti il commercio tedesco. A quest’ultimo, almeno per quanto riguarda i rapporti coi Paesi dell’Oriente, aveva poi assestato un altro duro colpo la crisi del 1929. La Repubblica di Weimar non rinunciò a recuperare le colonie strappatele a Versailles, ma la Società delle Nazioni si rifiutò di procedere alla loro restituzione come “mandati”. 
La propaganda contro “la menzogna della colpa coloniale” e la richiesta di terre per l’emigrazione e di mercati, fu condotta da vari gruppi e organi di stampa, ma questo problema, nella politica estera weimariana, ebbe una parte poco rilevante. Fino al Terzo Reich le discussioni rimasero sul terreno accademico. Hitler, nel Mein Kampf, aveva fatto da tempo i conti con la politica estera guglielmina e messo da parte qualsiasi possibilità di espansione extraeuropea per orientarsi verso l’Est europeo, in cui, secondo lui, stava il Lebensraum, lo spazio vitale necessario al popolo tedesco. A parte le non sempre chiare prese di ?posizione ideologiche contro il colonialismo esposte nella sua opera, Hitler, negli anni del potere, si disinteressò quasi sempre alle colonie. Qualche volta furono usate come strumento di pressione sull’Inghilterra e le altre potenze occidentali, ma la sfida tedesca rimase più che altro un intermezzo diplomatico e non si trasformò in un vero pericolo per il predominio coloniale europeo. L’atteggiamento tedesco non fu neppure propriamente anticolonialista.
Dal 1935 in poi il Reich iniziò a importare dai Paesi orientali, in quantità sempre maggiori, rame, nichel, tungsteno, cromo, prodotti agricoli e a esportare in essi prodotti farmaceutici, chimici, articoli elettrotecnici, generi di chincaglieria, mezzi di trasporto e impianti ferroviari, nonché attrezzature industriali e, in misura crescente, materiali bellici. Ciò contribuì ad aumentare la stima per la Germania e il disprezzo per Francia e Gran Bretagna. Fin dal 1934 poi la Germania svolse in Siria, in Palestina, in Iraq e in Libano, un’intensa opera di propaganda attraverso l’Ufficio di politica estera, diretto da Alfred Rosemberg. I nazionalsocialisti miravano a eccitare l’elemento arabo contro gli ebrei e contro la Francia e l’Inghilterra, e a preparare la rivolta del Medio Oriente e dell’Africa settentrionale nell’eventualità di una guerra europea. 
Nel 1937, Baldur von Schirach, il capo della Gioventù hitleriana, con altri rappresentanti del suo governo, visitò Iran, Iraq, Siria e Turchia, suscitando ovunque consensi. La recente riapertura di legazioni, consolati, scuole e istituti del Reich nel Vicino Oriente era ben vista perché la Germania aveva lasciato un buon ricordo della sua collaborazione con la Turchia durante la Prima guerra mondiale. La condotta dei suoi ufficiali e soldati nei Paesi arabi era stata ottima; non avevano mai commesso spoliazioni e usurpazioni, pagando tutto quello che occorreva loro. Insomma erano stati modelli d’onore militare, e anche dopo i loro tentativi di penetrazione si erano limitati alla cultura e al commercio. Nessuna mira espansionistica in Africa settentrionale o nel Vicino Oriente…

Gli obiettivi dell’Asse Roma-Berlino

Nei suoi studi sulla politica mediorientale del fascismo, si è mai chiesto quale situazione si sarebbe venuta a creare qualora l’Asse avesse vinto la guerra e tanto le mire italiane quanto quelle tedesche si fossero concentrate in una ridefinizione di quella parte del mondo rispondente ai propri interessi?
 La diversità di obiettivi tra Italia e Germania nell’area mediterranea aveva portato Hitler, il 24 ottobre 1936, giorno  precedente la costituzione dell’Asse, a dichiarare a Galeazzo Ciano, ministro degli Esteri italiano, che il Mediterra-neo era un mare italiano e che qualsiasi modifica futura nell’equilibrio di quell’area doveva andare a favore dell’Italia, così come la Germania doveva avere libertà di azione verso l’Est e verso il Baltico. Orientando i dinamismi italiano e tedesco in queste direzioni esattamente opposte, non si sarebbe mai avuto un urto di interessi tra le potenze fasciste. In altri termini, secondo Hitler, i Paesi arabi sotto controllo francese e inglese facevano parte, quasi nella loro totalità, della sfera di influenza dell’Italia. Se l’Asse avesse vinto la guerra, e i patti tra Hitler e Mussolini fossero stati osservati, l’Italia avrebbe esercitato sul Mare Nostrum la propria egemonia, dal Marocco all’Iraq. I tedeschi, da parte loro avrebbero probabilmente rivendicato quale propria sfera di influenza i Paesi a oriente dell’Iran all’Afgha-nistan, all’India, dove però anche il Giappone aspirava a esercitare la propria leadership. Era comunque l’Italia ad avere i maggiori interessi nell’area nordafricana e mediorientale. Con l’assunzione, il 18 marzo 1937, del titolo di Spada dell’Islam da parte del Duce si aprì, non a caso, un altro capitolo della politica araba del fascismo che diventò argomento della stampa di regime: aumentarono gli articoli e gli studi di autori arabi e musulmani, alcuni dei quali riguardanti i legami ideologici tra fascismo e islamismo e la maggior corrispondenza del fascismo, rispetto al comunismo, ai valori religiosi, morali e ideologici degli arabi. Per quanto riguarda l’aspetto culturale e storico-politico della questione si assistette a una serie di iniziative curate da studiosi e da istituzioni quali il Centro studi per il vicino Oriente e l’Istituto di studi di politica internazionale.

Si trattò quindi di una vera svolta nella politica del fascismo…
Sì, ma non più di tanto perché la politica araba dell’Italia restava ancora, tra il 1936 e il 1939, condizionata dall’andamento delle relazioni con Londra. Temendo che l’Inghilterra, grazie alla creazione di uno Stato ebraico in Palestina, rafforzasse le sue posizioni nel Mediterraneo orientale, l’Italia, grazie ai programmi trasmessi da Radio Bari, iniziò ad aizzare le popolazioni arabe contro gli inglesi. La carta araba, negli interventi di Mussolini e di Ciano, continuò a essere considerata moneta di scambio nel caso che si fosse aperto un varco per un’effettiva trattativa per un accordo generale mediterraneo tra Roma e Londra; tanto è vero che, sull’onda delle speranze suscitate dagli “accordi di Pasqua”, Roma bloccò subito gli aiuti ai movimenti antibritannici mediorientali – molto consistenti ai palestinesi – e moderò il tono delle trasmissioni di Radio Bari.
 
I tedeschi, in quegli anni, che atteggiamento assunsero verso i nazionalisti ara-bi? E questi ultimi cosa si aspettavano dalla Germa-nia?
Berlino sviluppò allora una politica non molto diversa da quella di Roma. Il ministro degli Esteri di Hitler, l’1  giugno 1937, inviò un telegramma alle sue rappresentanze di Londra, Bagdad e Gerusalemme da cui emergeva la contrarietà del Reich alla creazione di uno Stato ebraico in Palestina che se non era ritenuto capace di assorbire gli ebrei di tutto il mondo, avrebbe comunque creato per il giudaismo una base di potere sancita dal diritto internazionale.
Per gli arabi questo era già qualcosa, ma si aspettavano dal Hitler un po’ di più di una semplice, per quanto gradita, manifestazione di simpatia, peraltro priva di impegni. Il 15 luglio 1937, Hajj Amin al-Husayni, il Gran Mufti di Gerusalemme e della Palestina, in un colloquio con il console generale tedesco, cercò di ottenere una chiara risposta alla domanda circa la disponibilità della Germania a contrastare, pubblicamente, l’eventuale costituzione di uno Stato ebraico. Due giorni dopo il primo ministro iracheno, Hikmet Suleiman, fece capire all’ambasciatore tedesco a Bag-dad che il suo governo contava sull’appoggio tedesco, oltre che turco e italiano, nel momento in cui alla Lega delle Nazioni l’Iraq si fosse opposto al piano di divisione della Palestina in tre zone. Se Ribbentrop era disposto ad appoggiare il rappresentante iracheno alla Lega delle Nazioni, Hitler tuttavia non si impegnò, nella questione palestinese, al fianco degli arabi, almeno in un primo momento.

Per quale ragione?
Perché, come nella politica araba dell’Italia, così in quella della Germania si tendeva a non pregiudicare i rapporti con l’Inghilterra. Pertanto Berlino in principio si astenne dal fornire armi ai nazionalisti arabi e dal rafforzare la loro resistenza alla creazione di uno Stato ebraico in Palestina.
Comunque nella capitale del Reich non tutti condividevano questa posizione, cui, per forza di cose, dovevano adeguarsi perché era al Führer che spettava, in ogni caso, l’ultima parola. Si tentarono, con cautela, altre strade per sviluppare rapporti col mondo arabo. Dal 1937, per esempio, la Germania iniziò a intrattenere relazioni diplomatiche con l’Arabia Saudita che mirava a mantenere la propria “indipendenza” dall’Inghilterra, la cui influenza si estendeva a tutti gli Stati circostanti. Ibn Sa’ùd chiese a Berlino appoggio politico e forniture militari, sottolineando le affinità tra Germania e il mondo arabo, soprattutto circa la posizione difensiva di fronte alla Gran Bretagna. Sebbene l’Ufficio di politica estera del NSDAP, il partito nazionalsocialista, fosse da tempo favorevole alle forniture belliche ai sauditi, queste ultime non ebbero luogo poiché la sezione politica del ministero degli Esteri era contraria. Solo nel 1939, in seguito al rafforzamento delle posizioni britanniche in Medio Oriente, Hitler e Ribbentrop assicurarono a Ibn Sa’ùd un concreto aiuto alla formazione di un suo esercito. Il 17 giugno il Führer promise all’incaricato del re saudita un aiuto attivo e due mesi dopo un credito di 6.000.000 di marchi fu accordato ai sauditi che volevano acquistare fucili, carri armati leggeri e pezzi antiaerei. La Germania offrì tali forniture col nullaosta di Roma, che aveva rapporti buoni, ma non certamente ottimi, col regno dei Sa’ùd dopo l’accordo anglo-italiano del 16 aprile 1938, con cui le due potenze europee “garantivano” l’indipendenza dell’Ara-bia. L’1 settembre 1939 scoppiò la guerra e Berlino non poté procedere alle forniture, anche perché, dietro forti pressioni inglesi, l’Arabia Saudita fu costretta, l’11 settembre, a rompere le relazioni diplomatiche con il Terzo Reich.

I movimenti filofascisti arabi

Tornando alla questione palestinese, potrebbe chiarirci meglio l’atteggiamento tedesco inizialmente favorevole all’emigrazione ebraica verso la Terra-santa?
Nei primi anni di regime Hitler, volendo liberarsi degli ebrei presenti in Germania, vide nella Palestina sottoposta a mandato britannico la meta verso cui indirizzarli: se questo poi serviva a creare difficoltà agli inglesi tanto meglio, per quanto Hitler temesse allora la Gran Bretagna, ritenendola assai più forte del Terzo Reich. Già dal 1933, desiderosa di favorire l’emigrazione ebraica dalla Germania e di indirizzarla verso la Palestina, l’Agenzia ebraica era pervenuta coi tedeschi a un patto, denominato Haavara (trasferimento), che prevedeva la partenza verso la Terra Santa degli ebrei tedeschi. L’accordo sembrò ai nazionalsocialisti un’ottima occasione per “purificare il Reich” e sbarazzarsi degli ebrei; i diplomatici della Wilhelmstrasse, tradizionalmente filoarabi, pur non condividendo la scelta, dovettero adeguarsi.
Contrari erano anche i quadri dell’Auslandsorganisation e cioè della sezione del NSDAP da cui dipendevano le cellule in seno alle comunità residenti all’estero, riflettendo il punto di vista dei 2.000 cittadini tedeschi presenti in Palestina, che vedevano con orrore la prospettiva che gli ebrei cacciati dal Reich potessero insediarsi in Palestina e far loro concorrenza in varie attività. Tale politica non piaceva, ovviamente, nemmeno ai palestinesi e il Gran Mufti chiese a Hitler di interrompere il flusso migratorio e mettere fine all’insediamento sionista in Palestina. I nazisti, inizialmente convinti dell’incapacità degli ebrei di creare uno stato ebraico, nella seconda metà degli anni Trenta furono costretti a ricredersi e a constatare che l’insediamento sionista in Palestina era cresciuto sia di numero che di risorse. Dovettero prendere atto che la Commissione reale britannica guidata da Lord Peel, dopo una lunga indagine sul problema palestinese, aveva pubblicato nel luglio del 1937 un rapporto in cui raccomandava di dare parziale soddisfazione a entrambi i nazionalismi, sionista e palestinese, mediante una spartizione della Palestina mandataria e la conseguente creazione di due Stati, uno arabo e l’altro ebraico. Questo non era più soltanto il parto della fantasia sionista ma diventava una proposta concreta e l’oggetto di una raccomandazione contenuta in un rapporto del governo inglese. A siffatta mutata realtà i nazisti fecero seguire un diverso atteggiamento e se fino allora scopo preminente della politica della Germania era stato favorire il più possibile l’emigrazione degli ebrei, adesso dovettero rendersi conto che la formazione di uno Stato ebraico sotto tutela britannica non era nell’interesse della Germania, dato che non avrebbe assorbito l’ebraismo mondiale, ma creato, sotto leggi internazionali, un’ulteriore posizione di potere all’ebraismo internazionale, qualcosa come lo Stato del Vaticano per il cattolicesimo politico o Mosca per il Comintern. Pertanto l’opposizione alla creazione dello Stato sionista in Palestina comportò l’appoggio a chi tra gli arabi vi si opponeva. Vennero impartite da Berlino istruzioni alle sedi diplomatiche tedesche, esortandole ad assumere un atteggiamento favorevole verso gli arabi e le loro aspirazioni, senza tuttavia prendere impegni condizionanti. Tale cautela era ancora determinata dalla speranza di evitare una rottura definitiva con Londra e gli aiuti finanziari ai ribelli arabi, già elargiti con fondi dei servizi segreti tedeschi, continuarono a essere esigui e irregolari. Nel 1938 il patto di Monaco e la crisi cecoslovacca chiarirono inequivocabilmente che Londra e Berlino erano ormai su posizioni antitetiche, tali da comportare opposti schieramenti di campo nel caso dello scoppio di un conflitto. Da questo momento la propaganda tedesca s’intensificò esercitando una crescente influenza sull’opinione pubblica del mondo arabo, che vedeva nel Reich il nemico dei suoi nemici. Si rafforzarono i rapporti con il movimento nazionalista e con chi, come il Gran Mufti di Gerusalemme, dimostrava di essere un nemico irriducibile degli ebrei. Lo stesso Führer in più occasioni espresse ammirazione per gli arabi, la loro civiltà e la loro storia. Nel corso della conversazione a tavola con Keitel, ad esempio, la sera dell’1 agosto 1942, Hitler, oltre a dichiarare la sua convinzione circa la superiorità della religione islamica rispetto alla cristiana, parlando della Spagna affermò che quella araba era stata “l’epoca d’oro della Spagna, la più civile”. A questo apprezzamento del Führer corrispose l’ammirazione per il nazionalsocialismo da parte degli arabi. In un’opera autobiografica, il siriano Sami al-Jundi, uno dei primi capi del partito al-Ba’th, descrivendo lo stato d’animo che caratterizzava gli arabi negli anni Trenta afferma: “Eravamo razzisti, ammiratori del nazismo, leggevamo i suoi testi e le fonti della sua dottrina, specialmente Nietzsche…, Fichte e I fondamenti del secolo XIX di H. S. Chamberlain, tutto incentrato sulla razza. Fummo i primi a pensare di tradurre il Mein Kampf…”.

Quale fu l’atteggiamento degli egiziani di fronte al conflitto?
Allo scoppio della guerra l’Egitto era formalmente uno “Stato sovrano”, con un proprio re, un proprio governo e un proprio esercito, ma il Paese faceva parte dell’Impero britannico: gli inglesi infatti controllavano direttamente il canale di Suez, stazionavano in Egitto con le proprie truppe e con il diritto di utilizzarne basi e risorse in caso di guerra. I seguaci e i simpatizzanti dell’Asse sfruttarono a fondo la crisi alimentare e l’irritazione sempre più viva provata dall’uomo della strada contro lo stato d’assedio e la trasformazione del Paese in base militare per il Middle-East Commando.
Il governo egiziano, dietro la spinta dell’opinione pubblica, si rifiutò di entrare in guerra contro le potenze dell’Asse e tale atteggiamento continuò anche allorché le truppe italiane entrarono per la prima volta in Egitto. Si giunse addirittura all’assurdo che, mentre britannici, australiani, neozelandesi, sud africani e indiani difendevano l’Egitto dagli invasori italotedeschi, i 40.000 uomini dell’esercito egiziano si mantenevano neutrali, agli ordini di ufficiali che spesso non nascondevano le loro simpatie per l’Asse. La tensione aumentò all’inizio del 1942, quando, guidati da Rommel, gli italo-tedeschi penetrarono in territorio egiziano avanzando fino a el-Alamein, a ottanta chilometri a ovest di Alessandria. Questo fu visto dagli egiziani come il preludio a una “liberazione” dell’Egitto. Le manifestazioni contro la mancanza di viveri degenerarono in un’esplosione di sentimenti antibritannici al grido di “Vieni avanti Rommel!”. Anche in questa occasione quindi gli egiziani non presero parte a quella che, in teoria, era la difesa del proprio territorio nazionale. Era evidente che se gli eserciti fascisti avessero raggiunto Alessandria il popolo e l’esercito egiziani sarebbero insorti come avevano fatto gli iracheni l’anno prima.
Ufficiali, tra cui i giovani Nasser e Sadat, tentarono di mettersi in contatto col comando di Rommel per coordinare l’attività degli egiziani filofascisti con l’offensiva italo-tedesca. Gli alleati allora decisero di correre ai ripari e il mattino del 4 febbraio 1942 i tank inglesi circondarono il palazzo di Abidin imponendo a re? Faruq un ministero presieduto da Mustafà al-Nahas. Vennero istituiti tribunali speciali e migliaia di “nazisti”, nazionalisti egiziani e fratelli musulmani furono incarcerati come “agenti dell’Asse” o “elementi eversivi”.
Il 4 luglio i governi italiano e tedesco pubblicarono una dichiarazione per il rispetto dell’indipendenza dell’Egitto, dichiarandosi intenzionati a rispettarne e garantirne l’indipendenza e la sovranità. Le forze dell’Asse non entravano in Egitto come in un Paese nemico, ma con lo scopo di espellerne gli inglesi e di liberare il Vicino Oriente dal dominio britannico. La politica delle Potenze fasciste era ispirata al concetto che l’Egitto era degli egiziani: liberato dai vincoli che lo legavano alla Gran Bretagna il più importante Paese arabo era destinato a prendere il suo posto tra le Nazioni indipendenti e sovrane. Per l'intera durata della guerra in Egitto si registrarono attività filofasciste e antialleate: le Camicie verdi organizzarono il boicottaggio dei negozi stranieri, una radio clandestina operò al Cairo, membri dei comitati degli ufficiali liberi fecero filtrare agenti nazisti attraverso le file alleate; altri egiziani, studenti in Europa e fuoriusciti, svolsero attività propagandistica al servizio del ministero degli Esteri italiano e del ministero della Cultura popolare, intervenendo spesso nella stampa italiana e tedesca con articoli e analisi. Più ancora che a mezzo stampa la loro attività propagandistica si attivò via etere, da Radio Bari e da tre emittenti minori: la Nazione araba, Radio Egitto indipendente e Radio Giovane Tunisia, ispirate rispettivamente dal Gran Muftì di Gerusalemme, dal principe Mansur Daud e da el-Tayeb Nasser, presidente della società Misr (Egitto) in Europa, e dal leader desturiano Habib Thammer. La fiducia degli egiziani andava comunque maggiormente ai tedeschi perché la Germania non aveva mai colonizzato aree abitate da musulmani ed era stata l'alleata dell'Impero ottomano. L'Egitto rientrava nella zona di interesse italiano indubbiamente, anche se sul suo futuro ordinamento le opinioni tra Mussolini, il ministero degli Esteri ed altri ambienti politici militari erano diverse...

vendredi, 20 novembre 2009

Türkische Charmeoffensive

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Türkische Charmeoffensive

Erdogan umwirbt Araber und verteidigt das iranische Atom-Programm

Ex: http://www.ostpreussen.de/

In der türkischen Politik hat sich in den letzten Jahren ein deutlicher Wandel vollzogen – hin zu mehr Islam und pan-islamischer Solidarität. Jüngstes Anzeichen dafür war der Staatsbesuch von Ministerpräsident Recep Tayyip Erdogan im Iran. Dabei verteidigte Erdogan das iranische Atom-Programm, verurteilte Sanktionen und kündigte eine verstärkte türkisch-iranische Zusammenarbeit in Wirtschaft und Sicherheit an.

Die früher ausschließliche Westorientierung der Türkei, zu der auch die enge militärische Partnerschaft mit Israel gehört, geht im wesentlichen auf Kemal Atatürk zurück und wurde im Kalten Krieg durch den Beitritt zum Europarat 1949 und zur Nato 1952 verfestigt. In weiten Teilen der Bevölkerung, keineswegs nur in „bildungsfernen Schichten“, hat sich allerdings ein Umdenkprozess vollzogen, der schließlich in den Wahlsieg von Erdogans AKP 2002 mündete.

Die Ursachen sind vielfältig, haben aber primär mit der Behandlung muslimischer Staaten und Völker durch den Westen zu tun – Stichwörter Palästina, Irak, Afghanistan und Pakistan. Dazu kommt nun auch Frust über Widerstände in der EU gegen eine Aufnahme der Türkei. Aber bereits der Irak-Boykott ab 1992 hatte die Osttürkei auch wirtschaftlich schwer getroffen. Und Erdogan sieht sich durch Israel sogar persönlich mehrfach hintergangen: Vor allem durch den israelischen Luftangriff auf eine vermutete Atomanlage in Syrien 2007, der über die Türkei hinweg erfolgte, und den jüngsten Gaza-Krieg, den der damalige Premier Olmert einen Tag nach seinem Besuch bei Erdogan startete.

Die neue Linie wird von manchen Kommentatoren auch als „neo-osmanisch“ bezeichnet, weil sie im Unterschied zu dem auf die Turkvölker Asiens fixierten Pan-Turanismus „aufgeklärter“ türkischer Ultranationalisten nicht in diesem Ausmaß auf Sprache und „Türkentum“ ausgerichtet ist, sondern eben eher auf die „Umma“, die „Gemeinschaft der Gläubigen“ – sowie auf Gebiete, die einst zum Osmanischen Reich gehörten. Das erklärt etwa auch die vorsichtige Auflockerung in den Beziehungen mit dem christlichen Armenien.

Das erklärt ebenso das besondere Engagement am Balkan, nicht nur in Bosnien und Kosovo, und an verstärkter Zusammenarbeit mit Syrien und dem Irak. Nicht zu vergessen, dass der Sultan als Kalif auch Hüter der heiligen Stätten in Palästina war und dass die Anteilnahme an der Unterdrückung der Palästinenser, weil unterschwellig auf Nostalgie beruhend, sehr emotional ist. Man sah dies an den jüngsten Demonstrationen gegen die USA, als diese von ihrer Forderung nach einem israelischen Siedlungsstopp abrückten.

Die verstärkte Zusammenarbeit mit dem Iran ist angesichts der westlichen Drohungen mit einer Verschärfung des Boykotts bis hin zu Militäraktionen besonders brisant. Der bilaterale Handel, 2008 im Volumen von sieben Milliarden Dollar, soll ausgebaut und auf die Landeswährungen umgestellt werden. Die Türkei kündigte außerdem Investitionen von 3,5 bis vier Milliarden Dollar zur Erschließung des iranischen Erdgasfelds South Pars an und will iranisches Gas teils selbst konsumieren, teils über die geplante Gasleitung Nabucco nach Europa weiterliefern.

Bei der Zusammenarbeit in Sicherheitsfragen geht es nicht um Militärabkommen, sondern um den Kampf gegen gemeinsame innere Feinde. Das sind aufständische Kurden sowie sunnitische Extremisten, die vom Westen vereinfachend unter Al-Kaida zusammengefasst werden. Deren Terroranschläge waren in beiden Ländern lange Zeit ebenfalls gerne den nationalen Minderheiten zugerechnet worden, also den Kurden und im Iran auch den Belutschen – eine Propagandalüge, die sich nicht aufrechterhalten lässt.

In der Kurdenfrage hat Erdogan bereits einige bemerkenswerte Schritte gesetzt: Ein kurdisches Fernsehprogramm wurde zugelassen. Mit dem seit 1999 auf der Gefängnisinsel Imrali inhaftierten PKK-Führer Abdullah Öcalan gibt es indirekte Verhandlungen, und nun soll er sogar aus der Einzelhaft „erlöst“ werden: Er bekommt Mitgefangene. Der türkische Außenminister besuchte Erbil, was eine formelle Anerkennung der kurdischen Regierung im Nordirak bedeutet. Kurdenpräsident Masud Barzani lobte dafür Erdogan in den höchsten Tönen – was wie eine Absage an die türkischen Kurden aussieht. Umso größer ist daher das iranische Interesse, dass nun auch die iranischen Kurden nicht mehr auf Unterstützung von den Nachbarn hoffen können.    

RGK

Veröffentlicht am 12.11.2009

samedi, 17 octobre 2009

Ben Laden a travaillé pour les Etats-Unis jusqu'au 11 septembre 2001

Bombe médiatique :

Ben Laden a travaillé pour les États-Unis jusqu’au 11 Septembre 2001

Ex: http://fr.altermedia.info

sibel-edmonds

Invitée par l’animateur de l’émission radio Mike Malloy radio show [1], l’ancienne traductrice pour le FBI, Sibel Edmonds, a lancé une véritable bombe médiatique (audio, transcription partielle).

Lors de son interview, Sibel raconte comment les États-Unis ont entretenu des « relations intimes » avec ben Laden et les talibans, « tout du long, jusqu’à ce jour du 11 septembre. » Dans « ces relations intimes », Ben Laden était utilisé pour des “opérations” en Asie Centrale, dont le Xinjiang en Chine. Ces “opérations” impliquaient l’utilisation d’al-Qaida et des talibans tout comme « on l’avait fait durant le conflit afghano-soviétique », c’est à dire combattre “les ennemis” par le biais d’intermédiaires.

Comme l’avait précédemment [2] décrit Sibel, et comme elle l’a confirmé dans son dernier interview, ce procédé impliquait l’utilisation de la Turquie (avec l’assistance d’acteurs provenant du Pakistan, de l’Afghanistan et de l’Arabie Saoudite) en tant qu’intermédiaire, qui à son tour utilisait ben Laden, les talibans et d’autres encore, comme armée terroriste par procuration.

Le contrôle de l’Asie Centrale

Parmi les objectifs des “hommes d’État” américains [3] qui dirigeaient ces activités, il y avait le contrôle des immenses fournitures d’énergie et de nouveaux marchés pour les produits militaires. Pourtant, les Américains avaient un problème. Ils ne devaient pas laisser leur empreinte afin d’éviter une révolte populaire en Asie centrale (Ouzbékistan, Azerbaïdjian, Kazakhstan et Turkménistan), et aussi de sérieuses répercussions du côté de la Chine et de la Russie. Ils trouvèrent une ingénieuse solution : utiliser leur État fantoche, la Turquie, comme mandataire et en appeler à la fois aux sensibilités panturques et panislamiques.

Dans la région, la Turquie, alliée de l’OTAN, a beaucoup plus de crédibilité que les États-Unis ; avec l’histoire de l’Empire ottoman, elle pourrait appeler au rêve d’une plus large sphère d’influence panturque. La majorité de la population d’Asie Centrale partage le même héritage, la même langue, la même religion que les Turcs.

À leur tour, les Turcs ont utilisé les talibans et al-Qaida, en appelant à leur rêve d’un califat panislamique (sans doute. Ou bien les Turcs/Américains ont très bien payé).

Selon Sibel : « Ceci a commencé il y a plus de dix ans, dans le cadre d’une longue opération illégale et à couvert, menée en Asie centrale par un petit groupe aux États-Unis. Ce groupe avait l’intention de promouvoir l’industrie pétrolière et le Complexe Militaro-Industriel en utilisant les employés turcs, les partenaires saoudiens et les alliés pakistanais, cet objectif étant poursuivi au nom de l’Islam. »

Les Ouïghours

On a récemment demandé à Sibel d’écrire sur la récente situation de Ouïghours au Xinjiang, mais elle a refusé, disant simplement : « Notre empreinte y est partout. »

Bien sûr, Sibel n’est pas la première ou la seule personne à reconnaitre tout cela.
Eric Margolis [4], l’un des meilleurs reporters occidentaux concernant l’Asie Centrale, a affirmé que les Ouïghours, dans les camps d’entrainement en Afghanistan depuis 2001, « ont été entrainés par ben Laden pour aller combattre les communistes chinois au Xinjiang. La CIA en avait non seulement connaissance, mais apportait son soutien, car elle pensait les utiliser si la guerre éclatait avec la Chine. »

Margolis a également ajouté que : « L’Afghanistan n’était pas un creuset du terrorisme, il y avait des groupes commando, des groupes de guérilla, entrainés à des buts spécifiques en Asie Centrale. »

Dans une autre interview, Margolis [5] dit: « Ceci illustre le bon mot (en français dans le texte, NDT) de Henry Kissinger affirmant qu’il est plus dangereux d’être un allié de l’Amérique, que son ennemi, car ces musulmans chinois du Xinjiang (la province la plus à l’ouest) étaient payés par la CIA et armée par les États-Unis. La CIA allait les utiliser en cas de guerre contre la Chine, ou pour provoquer le chaos là-bas ; ils étaient entrainés et soutenus hors d’Afghanistan, certains avec la collaboration d’Oussama ben Laden. Les Americains étaient très impliqués dans toutes ces opérations. »

La galerie de voyous

L’an dernier, Sibel a eu la brillante idée de révéler des activités criminelles dont elle n’a pas le droit de parler : elle a publié dix-huit photographies – intitulées la “Galerie ‘Privilège Secrets d’État’ de Sibel Edmonds” – de personnes impliquées dans les opérations qu’elle avait tenté de révéler. L’une de ces personnes est Anwar Yusuf Turani [6], le prétendu “Président en Exil” du Turkistan Est (Xinjiang). Ce prétendu gouvernement en exil a été établi à Capitol Hill (le siège du Congrès US, NdT) en septembre 2004, provoquant des reproches acerbes de la part de la Chine.

“L’ancienne” taupe, Graham Fuller, qui avait joué un rôle dans l’établissement du “gouvernement en exil” de Turani du Turkestan Est, figure également parmi la galerie de voyous de Sibel. Fuller a beaucoup écrit sur le Xinjiang et son “Projet pour le Xinjiang” remis à la Rand Corporation était apparemment le plan pour le “gouvernement en exil” de Turani. Sibel a ouvertement affiché son mépris à l’égard de M. Fuller.

Susurluk

La Turquie a une longue histoire d’affaires d’État mêlant terrorisme, au trafic de drogue et autres activités criminelles, dont la plus parlante est l’incident de Susurluk en 1996 [7] qui a exposé ce qu’on nommait le “Deep State” (l’État Profond : l’élite militarobureaucratique, NDT)

Sibel affirme que « quelques acteurs essentiels ont également fini à Chicago où ils ont centralisé “certains” aspects de leurs opérations (surtout les Ouighurs du Turkestan Est). »

L’un des principaux acteurs du “Deep State”, Mehmet Eymur, ancien chef du contre-terrorisme pour les services secrets de la Turquie, le MIT, figure dans la collection de photos de Sibel. Eymur fut exilé aux USA. Un autre membre de la galerie de Sibel, Marc Grossman [8] était l’ambassadeur de la Turquie au moment où l’incident de Susurluk révélait l’existence de “Deep State”. Il fut rappelé peu après, avant la fin de son affectation tout comme son subordonné, le commandant Douglas Dickerson qui tenta plus tard de recruter Sibel dans le monde de l’espionnage.

Le modus operandi du gang de Suruluk est identique à celui des activités décrites par Sibel en Asie Centrale, la seule différence étant que cette activité eut lieu en Turquie il y a dix ans. De leur côté, les organes d’État aux États-Unis, dont la corporation des médias, avaient dissimulé cette histoire avec brio.

La Tchétchénie, l’Albanie et le Kosovo

L’Asie centrale n’est pas le seul endroit où les acteurs de la politique étrangère américaine et ben Laden ont partagé des intérêts similaires. Prenons la guerre en Tchétchénie. Comme je l’ai écrit ici [9], Richard Perle et Stephan Solarz (tous deux dans la galerie de Sibel) ont rejoint d’autres néo-conservateurs phares tels que : Elliott Abrams, Kenneth Adelman, Frank Gaffney, Michael Ledeen, James Woolsey, et Morton Abramowitz dans un groupe nommé Le Comité Américain pour la Paix en Tchétchénie (ACPC) [10]. Pour sa part, ben Laden a donné 25 millions de dollars pour la cause, fourni des combattants en nombre, apporté des compétences techniques, et établi de camps d’entraînement.

Les intérêts des États-Unis convergeaient [9] aussi avec ceux d’al-Qaida au Kosovo et en Albanie. Bien sûr, il n’est pas rare que surviennent des circonstances où “l’ennemi de mon ennemi est mon ami.” D’un autre côté, dans une démocratie transparente, on attend un compte-rendu complet des circonstances menant à un événement aussi tragique que le 11/9. C’était exactement ce que la Commission du 11/9 était censée produire.

Secrets d’État

Sibel a été surnommée “la femme la plus bâillonnée d’Amérique”, s’étant vue imposer par deux fois l’obligation au secret d’État. Son témoignage de 3 heures et demie devant la Commission du 11/9 a été totalement supprimé, réduit à une simple note de bas de page qui renvoie les lecteurs à son témoignage classé. (donc non accessible, NdT)

Dans l’interview, elle révèle que l’information, classée top secret dans son cas, indique spécifiquement que les USA se sont servis de ben Laden et des taliban en Asie Centrale, dont le Xinjiang. Sibel confirme que lorsque le gouvernement US la contraint juridiquement au silence, c’est dans le but de « protéger “des relations diplomatiques sensibles”, en l’occurrence la Turquie, Israël, le Pakistan, l’Arabie saoudite… » C’est sans doute en partie vrai, mais il est vrai aussi qu’ils se protègent eux-mêmes : aux États-Unis, c’est un crime que d’utiliser la classification (confidentielle, NdT) et le secret pour couvrir des crimes.

Comme le dit Sibel dans l’interview : « Je dispose d’informations concernant des choses sur lesquelles le gouvernement nous a menti… on peut très facilement prouver que ces choses sont des mensonges, sur la base des informations qu’ils ont classées me concernant, car nous avons entretenu de très proches relations avec ces gens ; cela concerne l’Asie Centrale, tout du long, jusqu’au 11 Septembre. »

Résumé

L’information explosive ici est évidemment qu’aux États-Unis, certaines personnes se sont servies de ben Laden jusqu’au 11 septembre 2001.

Il est important de comprendre pourquoi : depuis de nombreuses années, les États-Unis ont sous-traité leurs opérations terroristes à al-Qaïda et aux talibans, encourageant l’islamisation de l’Asie centrale en vue de tirer profit des ventes d’armes tout comme des concessions pétrolières et gazières.

Le silence du gouvernement US sur ces affaires est aussi assourdissant que les conséquences (les attentats du 11/9, NDT) furent stupéfiantes.

Source: ReOpen911 [11]


Article printed from AMI France: http://fr.altermedia.info

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URLs in this post:

[1] Mike Malloy radio show: http://www.mikemalloy.com/

[2] précédemment: http://lukery.blogspot.com/2008/07/court-documents-shed-light-on-cia.html

[3] “hommes d’État” américains: http://letsibeledmondsspeak.blogspot.com/2008/01/sibel-names-names-in-pictures.html

[4] Eric Margolis: http://www.ericmargolis.com/biography.aspx

[5] Margolis: http://lukery.blogspot.com/2009/07/us-trained-uighur-terrorists.html

[6] Anwar Yusuf Turani: http://www.eastturkistangovernmentinexile.us/anwar_biography.html

[7] Susurluk en 1996: http://en.wikipedia.org/wiki/Susurluk_scandal

[8] Marc Grossman: http://en.wikipedia.org/wiki/Marc_Grossman

[9] ici: http://lukery.blogspot.com/2008/07/sibel-edmonds-case-central-asia.html

[10] Comité Américain pour la Paix en Tchétchénie (ACPC): http://www.rightweb.irc-online.org/profile/American_Committee_for_Peace_in_Chechnya

[11] ReOpen911: http://www.reopen911.info/News/2009/08/13/une-bombe-ben-laden-a-travaille-pour-les-etats-unis-jusquau-11-septembre/

dimanche, 04 octobre 2009

La guerre en Irak est-elle finie?

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La guerre en Irak est-elle finie ?

Exclusivité: http://unitepopulaire.org/

Depuis que le nouveau président américain, Barak Obama, a promis que les forces américaines allaient quitter l’Irak, la couverture médiatique sur ce pays a beaucoup diminué. Tout va-t-il donc pour le mieux dans chez les Irakiens ? En 2009, les efforts américains paraissent se focaliser sur la pacification de l’Afghanistan, et bien que cette tâche semble perdue, c’est sur cette affaire que les médias se concentrent pour le moment. Pour celles et ceux qui suivent l’information hors des médias traditionnels – notamment sur les divers sites d’information dont l’excellent Antiwar – il apparaît que la violence en Irak, un peu à la baisse en 2007, s’est de nouveau élevée à un niveau terrifiant. Attentats, voitures piégées, kamikazes, tirs de mortiers, faisant des centaines de morts par semaine… Si les soldats américains, retranchés dans leurs immenses bases et ambassades, semblent ne pas trop subir de pertes, et que le nombre de morts et blessés mercenaires reste aussi flou que jamais, ce sont les civils irakiens de toutes confessions, âge et sexe, qui sont le plus touchés.

Il est légitime de se demander si la guerre en Irak est finie, si les forces américaines vont quitter (officiellement, sinon officieusement) le pays, et quels sont les enjeux politiques et géostratégiques locaux et régionaux qui pourraient aider à répondre à ces questions. C’est afin de répondre à ces questions que l’historien français Denis Gorteau a écrit un livre, La Guerre en Irak Est-elle Finie ?, édité aux éditions Yvelines en juin 2009, qui résume fort bien les tenants et les aboutissants de cette guerre déclenchée par George W. Bush en 2003.

Je recommande ce livre a toute personne ne connaissant que peu de choses sur cette région-là du monde, car en 273 pages, c’est toute l’histoire du Moyen-Orient (et des Etats-Unis) qui est résumée de manière concise et intelligente. Même l’historien amateur ou passionné de géostratégie dont je suis peut trouver dans ce livre, au-delà de l’exposé des faits, un bon nombre d’idées judicieuses sur la manière dont pétrole, Israël, l’Iran, la Russie, la Chine, les Etats-Unis, le nationalisme arabe et l’Islam s’emboîtent en alliances, parfois contre-nature, conflits – larvés ou ouverts – pour façonner, souvent de manière tragique, une région stratégiquement vitale pour le monde moderne. Même le lecteur d’excellents livres sur le sujet, comme Cobra II de Michael R. Gordon, Fiasco de Thomas E. Ricks, Hubris de Michael Isikoff, ou la trilogie de Bob Woodward (Plan of Attack, Bush at War, State of Denial) pourra trouver dans La Guerre en Irak Est-elle Finie ? des idées pertinentes et novatrices, malgré – ou justement parce que – l’approche très factuelle, mais dans laquelle on sent un vrai attachement de l’auteur pour les peuples de la région qui subissent depuis fort longtemps un cycle d’injustices et de violences inouïes.

Denis Gorteau, qui sera d’ailleurs en conférence prochainement à Genève sur ce thème (date à préciser), explique notamment très bien les différentes facettes historiques de cette guerre et touche très rapidement aux sujets qui ont rendu la situation si cruelle pour les Irakiens et si inextricable pour l’ensemble des acteurs du conflit.

 

pour Unité Populaire, Piero Falotti

mardi, 15 septembre 2009

Al-Qaeda: una util herramienta de guerra para el Imperio

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Al-Qaeda: una útil herramienta de guerra para el Imperio

Ex: http://antimperialista.blogia.com/

(Extracto del artículo "Ex secretario de seguridad de Bush revela dato clave del uso imperial del terrorismo" publicado en IAR noticias)

En el libro "La prueba de nuestro tiempo: Estados Unidos asediado... y cómo podemos estar nuevamente seguros" Ridge (Ex secretario de seguridad de Bush ) cuenta que pese a los pedidos del ex secretario de Defensa, Rumsfeld, y del entonces secretario de Justicia John Ashcroft, él se opuso a elevar el nivel de alerta y, finalmente, no fue elevado, aunque le costó el cargo.

Semanas antes de las elecciones de 2004 habían sido difundidas dos grabacioness de Al-Qaeda: una con Osama Bin Laden y la otra con un hombre llamado "Azzam el estadounidense’’. La CIA -como lo hace siempre- reconoció la "autenticidad" de las amenazas. "El aumento de la alarma terrorista en EEUU poco antes de las presidenciales de 2004 pretendía  influir en los resultados y favorecer a George W. Bush", afirma Ridge en su libro.

"Bush y el candidato contrincante demócrata John Kerry -señala- estaban muy igualados en las encuestas y los funcionarios claves de Bush  afirmaban que el video de Bin Laden, incluso sin elevar el nivel de alarma, contribuiría a una victoria final de Bush por un resultado abrumante."

Pese a todo se tomaron grandes prevenciones de seguridad en edificios públicos y en lugares claves de Nueva York, lo que ayudó a recrear el "clima terrorista" que lo llevó a Bush a ganar las elecciones y ser reelecto en el cargo presidencial.   

En pleno despliegue del aparato de seguridad para prevenir el "ataque terrorista", Ridge renunció el 30 de noviembre del 2004.

Desde el punto de vista geopolítico y estratégico, el   "terrorismo" no es un objeto diabólico del fundamentalismo islámico, sino una herramienta de la Guerra de Cuarta Generación que la inteligencia estadounidense y europea vienen utilizando (en Asia y Europa) para mantener y consolidar  la alianza USA-UE en el campo de las operaciones, para derrotar a los talibanes en Afganistán, justificar acciones militares contra Irán, antes de que se convierta en potencia nuclear, y generar un posible 11-S para distraer la atención de la crisis recesiva mundial.

A nivel geoeconómico se registra otra lectura:  Si se detuviera la industria y el negocio armamentista centralizado alrededor del combate contra el "terrorismo" (hoy alimentado por un presupuesto bélico mundial de US$ 1,460 billones) terminaría de colapsar la economía norteamericana que hoy se encuentra en una crisis financiera-recesiva de características inéditas.

Esta es la mejor explicación de porqué Obama, hoy sentado en el sillón de la Casa Blanca, ya se convirtió en el "heredero forzoso" de la "guerra contraterrorista" de Bush a escala global.

La "guerra contraterrorista" no es una política coyuntural de Bush y los halcones neocon, sino una estrategia global del Estado imperial norteamericano diseñada y aplicada tras el 11-S en EEUU, que ya tiene una clara  línea de continuidad con el gobierno demócrata de Obama.

La "simbiosis" funcional e interactiva entre Bush y Al Qaeda tiñó 8 años claves de la política imperial de EEUU. A punto tal, que a los expertos les resulta imposible pensar al uno sin el otro. Durante 8 años de gestión, Bin Laden y Al Qaeda se convirtieron casi en una "herramienta de Estado" para Bush y los halcones neocon que convirtieron al "terrorismo" ( y a la "guerra contraterrorista") en su principal estrategia de supervivencia en el poder.

Hay suficientes pruebas históricas en la materia: El 11-S sirvió de justificación para las invasiones de Irak y Afganistán, el 11-M en España preparó la campaña de reelección de Bush y fue la principal excusa para que EEUU impusiera en la ONU la tesis de "democratización" de Irak legitimando la ocupación militar, el 7-J en Londres  y las sucesivas oleadas de "amenazas" y "alertas rojas" le sirvieron a Washington para instaurar el "terrorismo" como primera hipótesis de conflicto mundial,  e imponer a Europa  los "planes contraterroristas" hoy institucionalizados a escala global.

Decenas de informes y de especialistas -silenciados por la prensa oficial del sistema- han construido un cuerpo de pruebas irrefutables de que Bin Laden y Al Qaeda son instrumentos genuinos de la CIA estadounidense que los ha utilizado para justificar las invasiones a Irak y Afganistán y para instalar la "guerra contraterrorista" a escala global.

La "versión oficial" del 11-S fue cuestionada y denunciada como "falsa y manipulada" por un conjunto de ex funcionarios políticos y de inteligencia, así como de investigadores tanto de EEUU como de Europa, que constan en documentos y pruebas presentados a la justicia de EEUU que nunca los investigó aduciendo el carácter "conspirativo" de los mismos (Ver: Documentos e informes del 11-S. / Al Qaeda y el terrorismo "tercerizado" de la CIA / La CIA ocultó datos y protegió a los autores del 11-S / Ex ministro alemán confirma que la CIA estuvo implicada en los atentados del 11-S / Informe del Inspector General del FBI: Más evidencias de complicidad del gobierno con el 11-S / Atentados del 11-S: 100 personalidades impugnan la versión oficial )

El establishment del poder demócrata (que ejerce la alternancia presidencial con los republicanos en la Casa Blanca) jamás mencionó la existencia de estas investigaciones y denuncias en una complicidad tácita de ocultamiento con el gobierno de Bush.

Simultáneamente, y durante los ocho años de gestión de Bush, los demócratas no solamente avalaron las invasiones de Irak y de Afganistán y votaron todos los presupuestos de la "guerra contraterrorista", sino que también adoptaron como propia la "versión oficial" del 11-S.

Este pacto de silencio y de encubrimiento entre la prensa y el poder imperial norteamericano preservó las verdaderas causas del  accionar terrorista de Bin laden y Al Qaeda, cuyas "amenazas" periódicas son publicadas sin ningún análisis y tal cual la difunden el gobierno y  sus organismos oficiales como la CIA y el FBI.

samedi, 16 mai 2009

Entrevista a Khodhayer W. H. al-Murshidy (Partido Baaz)

Entrevista al portavoz del Partido Baaz Árabe Socialista y del Frente Patriótico Nacionalista e Islámico, Khodayer W.H. Al-Murshidy

“Al Qaeda no forma de parte de la resistencia sino de la ocupación

“Al Qaeda no forma de parte de la resistencia sino de la ocupación. Al Qaeda entró en Iraq con los norteamericanos. Al Qaeda no existía antes de la ocupación. Durante el primer año el objetivo de Al Qaeda eran los propios soldados norteamericanos, posteriormente Al Qaeda deja de atacar al ejército norteamericano y se dedica a atacar a la población civil, en escuelas, mercados etc. La dirección de Al Qaeda está en manos de norteamerica, de esta forma pueden hablar los ocupantes de que vienen a defender a la población civil y que es la resistencia la que mata a los civiles iraquíes”.

Así asegura Abu Mohamed, seudónimo de Khodayer W.H. Al-Murshidy. Tiene 53 años, es médico oncólogo y profesor de la Universidad de Bagdad. Desde finales de 2006, es el representante y portavoz del Partido Baaz Árabe Socialista (PBAS) y del Frente Patriótico Nacionalista e Islámico (FPNI), conjunto de organizaciones que luchan contra la ocupación de Iraq y que engloban a la mayor parte de las organizaciones opuestas a la ocupación, desde los sectores comunistas hasta sectores confesionales moderados o la propia Alianza Patriótica Iraquí (API).Desde la ocupación de Bagdad hace ahora seis años, Abu Mohamad se ha convertido en el referente público acreditado del denominado nuevo baazismo iraquí, que con otras organizaciones promueven la reconstrucción democrática y social del país sobre bases no sectarias ni confesionales. Este sector se opone tanto a la ocupación militar estadounidense como a la actuación de Al-Qaeda en Iraq, tanto por sus métodos de terrorismo indiscriminado contra civiles y determinadas comunidades, como por su posición extremadamente reaccionaria en aspectos sociales, de tal forma que en estos momentos Al Qaeda en Iraq está siendo contestada militarmente por la resistencia iraquí.


1. Cómo ve usted la situación de la cuestión Iraquí dentro de la sociedad europea que hace unos años se manifestó claramente contra la guerra de ocupación de su país?

El pueblo español y los pueblos europeos se volcaron en la ayuda al pueblo de Iraq antes de la guerra, estamos muy agradecidos por la movilización de los amigos españoles contra la guerra de agresión contra nuestro país. Nosotros somos los representantes del pueblo iraquí y con los que tienen que hablar los ocupantes. Hoy cuando los europeos se quedan sin empleo es también debido al enorme costo económico de esa guerra. La inversión del gobierno Busch en la guerra contra Iraq ha acabado de arruinar a su propio país y lanzar a todo el mundo a una enorme recesión económica.

2. La imagen que promovieron los medios de comunicación del partido Baas y su más alto dirigente Sadam Husein, era la de un partido centralista, represor y dictatorial, usted es tanto portavoz del Partido Baaz Árabe Socialista (PBAS) como del Frente Patriótico Nacionalista e Islámico y de mando militar unificado, ¿qué ha cambiado en el partido Baaz tras la invasión de Iraq?

El frente nacionalista e islámico es el representante de la resistencia iraquí, representa las facciones militares y políticas de la resistencia iraquí, también se compone de otros grupos que no aceptan la ocupación militar. Dentro de este frente es el partido Baaz quién representa en este momento la resistencia, con 5 millones de simpatizacentes y militantes, forma el partido más importante. El partido Baaz quiere construir, desde bases democráticas y humanitarias un nuevo Iraq. Quiere no sólo expulsar a los norteamericanos sino librar al país de problemas étnicos o sectarios, con respeto a las minorías y a la diversidad que existe en el país. La visión del Frente es diferente a la de la época anterior, se basará en la democracia y la integración de todas las etnias.

3. ¿Cómo se agrupan las diferentes corrientes de la resistencia?

La resistencia iraquí está unida en tres grandes formaciones políticas, la primero es la Alianza superior para la “Yihab” y la liberación, se compone a su vez de 33 partidos y organizaciones, engloba a árabes, turcos, kurdos, turcomanes etc… es multiétnica y multirracial, se extiende por todo el país. Su objetivo es la liberación de Iraq de la ocupación americana. Es un movimiento nacionalista y no radical (en sentido religioso), se enfrenta contra el terrorismo y el sectarismo. El 90 % de la resistencia está dentro de este Frente. Los otros dos grupos opuestos a la ocupación son el Frente para el cambio (6 organizaciones) y el Frente para la mejora (2 organizaciones) entre los dos representan el 10% de la resistencia, son islámicos y fundamentalistas, no representan al pensamiento nacional iraquí, aunque hay un acercamiento entre los 3 los grupos.

La lucha militar ha hecho que los militares EEUU pierdan la guerra en Iraq, hay miles de muertos. Según las cifras oficiales. 4500 soldados americanos muertos. 40000 heridos, 12000 sufren enfermedades mentales derivadas de la guerra. 3000 suicidios. Las cifras reales son mucho mayores puesto que los norteamericanos no incluyen la muerte de los mercenarios o aquellos soldados que aún no son ciudadanos norteamericanos aunque combaten en sus filas. Los afectados directos superan los 60000 según fuentes oficiales más de 1/3 del total de las fuerzas implicadas. La resistencia tiene datos que multiplican estas cifras.

4. ¿La resistencia incluye facciones de Al Qaeda?, ¿consideran ustedes a Al Qaeda en Iraq como una organización resistente?

Al Qaeda no forma de parte de la resistencia sino de la ocupación. Al Qaeda entró en Iraq con los norteamericanos. Al Qaeda no existía antes de la ocupación. Durante el primer año el objetivo de Al Qaeda eran los propios soldados norteamericanos, posteriormente Al Qaeda deja de atacar al ejército norteamericano y se dedica a atacar a la población civil, en escuelas, mercados etc. La dirección de Al Qaeda está en manos de norteamerica, de esta forma pueden hablar los ocupantes de que vienen a defender a la población civil y que es la resistencia la que mata a los civiles iraquíes.

5. Según algunos medios de comunicación, noticias divulgadas en ocasiones por los mismos mandos militares de EEUU en Iraq, hay diferencias tribales que han conducido a enfrentamiento entre grupos, contra Al-Qaeda y contra las tropas de ocupación. Desde su punto de vista. ¿cuál es la situación real?

La sociedad iraquí es una sociedad tribal muy mezclada y con diversas confesiones. Antes de la ocupación las familias iraquíes convivían sin problemas, es muy normal familias formadas por miembros con diferentes confesiones religiosas, marido chiita, mujer sumita o al contrario, familias kurdas mezcladas o católicas etc. Los enfrentamientos entre sunitas y chiitas, lo son en la medida que fuerzas extranjeras, incitan a escuadrones de la muerte a masacrar a la población civil, intentando enfrentar a unas comunidades contra las otras. Aquí la influencia de Irán, EEUU e Israel se ven claramente, es un intento de conseguir la segregación étnica del país. En ocasiones las milicias mafiosas de unas mismas confesiones religiosas se enfrentan entre ellas por conseguir zonas de influencia económica dentro de las ciudades, aunque pertenecen a la misma confesión. No representan más allá del 5% de la población iraquí, el resto el 95% no aceptan a estas milicias. No tenemos miedo a una guerra sectaria en Iraq, no pasará nunca. Los norteamericanos y la ocupación, intentan fomentar la guerra civil después de su derrota para justificar la permanencia en el país. La resistencia, en cambio, se compone de miembros del pueblo de todo el espectro social del país. La resistencia se está enfrentando a esta política, que pretende destruir al país como unidad

6. ¿Consideran ustedes a la corriente de Moqtda as-Sáder y su Ejército del Mahdi una fuerza resistente?

La corriente de Moqtda as- Sader y el ejército del Mahdi, no es una parte de la resistencia iraquí, están dentro de la ocupación, forman parte de ella, tienen 24 diputados en el parlamento colaboracionista, 3 ministros en el gobierno, han creado milicias y grupos terroristas, han asesinado a muchos nacionalistas iraquíes y a mucha otra gente de confesiones religiosas diferentes en nuestro país. Tienen el apoyo directo de Irán que ha enviado armamento, pretenden fomentar la guerra civil en Iraq con el apoyo del gobierno colaboracionista. Cuando se diferenciaron del gobierno, hubo enfrentamientos militares entre las milicias y el gobierno colaboracionista, se retiraron los tres ministros pero quedaron los parlamentarios. ¿Cómo se puede ser de la resistencia y formar parte de un gobierno que ha creado la misma ocupación? En estos momentos, oficiales del ejército regular iraní comandan al ejército del Mahdi. Tampoco podemos olvidar la intervención del Mossad israelí en la colocación de bombas en los mercados y las escuelas. El sector nacionalista que convivía en el ejército del Mahdi ha abandonado el grupo en señal de protesta. En este momento el dirigente máximo de este grupo, Moqtda as-Sader, vive bajo la protección de Irán en la ciudad iraní de Qon,

7. La posición del presidente Obama respecto a Irán parece que varía. ¿Qué papel desempeña Irán en este panorama?

No existe ningún enfrentamiento real en cuanto al tema de la ocupación entre Irán, EEUU e Israel, el único problema que existe en este momento es la no aceptación por parte de EEUU del programa nuclear Iraní, intentan partir el país en zonas de influencia. El interés de Israel es que Irán fomente la lucha sectaria entre facciones en el país. Las declaraciones de Obama sobre Irán apuntan a un pacto entre los tres países en un intento de derrotar a la resistencia y fragmentar el país. Declaraciones como las de Simón Pérez (presidente de Israel) señalando que hay históricamente, desde la época del Imperio persa de Nabucodonosor, unas buenas relaciones entre el pueblo persa y Israel abundan en la idea de un pacto entre los tres. La única solución es la victoria de la resistencia iraní, no aceptamos otra cosa que no sea la victoria cueste lo que cueste.

8. ¿Cuáles son las demandas de la resistencia? ¿Están ustedes dispuestos a negociar con EEUU?

Estamos construyendo una sociedad multiétnica, basada en la democracia, pero no la democracia que nos han traído los EEUU, basada en el asesinato, la matanza o el robo, sino una democracia donde estén reconocidos todos los derechos humanos y la población tenga los medios básicos de subsistencia (casa, comida, escuelas….) La democracia que han traído los americanos no tiene nada que ver con todo eso. Nosotros, la resistencia iraquí, pedimos la libertad cono en España, donde existan diversos partidos no sólo un partido único.

La negociación con EEUU se producirá cuando el último soldado de EEUU abandone el país, en ese momento y no otro estaremos en disposición de negociar con norteamerica de nación a nación. Los discursos de Obama siguen los mismos pasos firmados por Bush y su gobierno. ¿Qué pasa con los muertos, heridos y exiliados? No habla de la situación en Irak del medio centenar de bases que tiene por todo el territorio. En el momento que habla de retirar tropas se están creando tres super-bases aéreas con pistas de despegue de 4 km de longitud. Por ahora no ha cumplido nada. Continúa la fachada de un gobierno iraquí detrás del cual todos los equipos y los asesores vienen de fuera del país. Obama parece querer evitar la derrota. Que recuerde que con esta guerra Bush humilló a su propio país y a su ejército. Se pueden ver por Bagdad, a soldados ocupantes llorando. Han sufrido cerca de 60000 bajas, un tercio del total de las tropas implicadas entre muertos en combate, heridos, suicidios y trastornos mentales. Esta guerra, le ha supuesto a EEUU miles de millones de dólares en pérdidas, (algunos económistas hablan de 3 billones de dólares). Y es una de las causas de la actual crisis mundial.

9. Recientemente usted desmentía al ex primer ministro Iyad Alawi, quien afirmó que había contactos entre EEUU y la resistencia que usted representa.

La primera condición es la retirada completa de las tropas de ocupación y detener el proceso político iniciado en Iraq. La ocupación militar está fuera de la ley, por tanto todo lo que han hecho está fuera de la ley. Nosotros queremos reconstruir Iraq de forma democrática, no con las milicias sectarias que existen en este momento. EEUU tiene que pagar las indemnizaciones correspondientes por todo el daño que han hecho en Iraq. Tiene que hablar con los representantes del pueblo iraquí que son la resistencia representada por el partido Bass. El ejército ni la policía actual no representan al estado iraquí en cuanto que está divido en milicias sectarias, pretendemos un ejército nacional que represente a todo Iraq como una nación. El partido Bass que es la vanguardia de la resistencia, representa al pueblo iraquí.

10. ¿Cómo está la situación militar en estos momentos por parte de la resistencia?

Desde el comienzo de la ocupación la resistencia ha realizado más de 55000 operaciones militares, en este momento realizan cerca de 60 diarias. La lucha no es sólo militar, sino económica y política, está dentro del pueblo, no sólo la realizan militares sino toda la población en su conjunto. Resistir forma parte de la vida cotidiana de muchas familias, se lleva una vida normal de lunes a viernes para luego planificar y estudiar como atacar a las tropas invasoras. La resistencia tiene un enorme stock de armas, sabe cómo usarlas y está preparada para resistir durante generaciones si es necesario. Habitualmente los ataques se hacen con grupos dispersos por todo el territorio de 4 personas.

11. ¿En caso de que las tropas estadounidenses se retiren de Iraq, no habría una guerra civil en el país?

No habrá guerra civil en el país porque la diferenciación étnica en el país es consecuencia de la ocupación y de las tropas extranjeras que se han afincado en el país, es completamente ajena a la realidad del país antes de la ocupación.

12. Como valoran los sucesivos discursos de Obama sobre la retirada de las tropas en Iraq? ¿A qué se debe el cambio de actitud de EEUU en la actualidad?

El cambio de actitud de la administración norteamericana es debido a la derrota militar que ha sufrido. El poderoso ejército norteamericano ha sido incapaz de derrotar la resistencia del pueblo iraquí, al mismo tiempo que se enfangaba más y más en la guerra, las dificultades económicas para la superpotencia se han agudizado. Es en este contexto donde los discursos del presidente Obama intenta salvar una situación que se les hace muy difícil. A pesar de ello hay muchas cosas que no están claras en las problemas del presidente. Del compromiso inicial de retirada en seis meses se ha pasado a la retirada en 16 y posteriormente a 19 o más según el Secretario de Defensa. El presidente Obama no ha mencionado que va hacer con los 180000 mercenarios que están en el país. Tampoco habló de las 50 bases norteamericanas en Iraq. ¿Qué va hacer de las 3 bases supergigantes que hay en construcción o ampliación en este momento?

¿Que hará con los consejeros norteamericanos?, cada ministro tiene un grupo de asesores americanos que son los que realmente mandan

Tampoco habló de las leyes económicas legisladas durante 6 años. ¿Qué va hacer con la Ley de privatización de los hidrocarburos?. ¿Qué va hacer con la gente que en este momento control realmente el país?

En su discurso Obama no habló en ningún momento del derecho de los iraquíes a su propio país a su propio territorio. No habló de las indemnizaciones que ha de pagar a Iraq.

13. ¿Qué condiciones debe darse para la reconstrucción? ¿Cómo se puede reconstruir un país partiendo de la base de una destrucción tan absoluta como la que se sufre el país en estos momentos?

Efectivamente, la destrucción del país es enorme, pero tenemos una gran experiencia en la reconstrucción. En la guerra de 1991 fueron lanzadas sobre el país 130000 tm de bombas, el pueblo iraquí con sus propios medios fue capaz de reconstruir todas las infraestructuras básicas en menos de un año. La electricidad fue restituida en tres meses tras el ataque en 1991. Hoy, tras seis años de ocupación, han sido incapaces de dar electricidad al país más allá de 3 horas diarias. Irak tiene una red de técnicos que muchos países del mundo no tienen. Según la OMS y la UNESCO, la cobertura médica meses antes de la guerra del Golfo, era la mejor de todo Oriente Medio. Confiamos plenamente en nuestros técnicos y científicos para reconstruir el país. Pedimos a todos los que nos ayudan que colaboren en la reconstrucción de Iraq.

Eduardo Luque

Extraído de Visiones Alternativas.

vendredi, 03 avril 2009

El islam wahhabita

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El islam wahhabita

por Fernando José Vaquero Oroquieta

¿Es el wahhabismo consustancial al islam o es una desviación del mismo? Una aproximación a esta corriente fundamentalista musulmana que se encuentra en la base del terrorismo islámico internacional. Incluye unas notas sobre el Wahhabismo en España

 

Introducción.

El diario La Razón, en su edición del 11 de diciembre de 2002, afirmaba, en un artículo de su suplemento Fe y Razón, que el wahhabismo había alcanzado en Rusia la cifra de 100.000 adeptos, según las palabras alarmadas de Talgat Tayuddín, líder de los musulmanes rusos (cuyo número oscila entre 12 y 20 millones). Según las mismas fuentes, en parte a causa del vacío ideológico ocasionado por la caída del comunismo en la antigua Unión Soviética, algunas formulaciones islámicas radicales importadas, refiriéndose especialmente con ello al wahhabismo, crecerían entre los musulmanes de la Comunidad de Estados Independientes; lo que constituiría un serio motivo de inseguridad y temor.

Por otra parte, "no todos los musulmanes son terroristas suicidas, pero todos los terroristas suicidas musulmanes son wahhabitas", aseguraba recientemente el islamólogo Stephen Schwartz; señalando, así, una concreta genealogía en el origen del terrorismo islámico internacional.

En este contexto, en el que el término wahhabismo, antaño exótico patrimonio de minorías, es fuente de noticias periodísticas y sesudos estudios especializados, podemos preguntarnos: ¿qué es el wahhabismo?, ¿cuáles son las relaciones entre el islam y el wahhabismo?

Chiíes y sunníes.

Retrocedamos en la historia y situémonos en los orígenes de esta pujante religión monoteísta.

El islam experimentó en sus primeros años, ya en vida de su fundador, el Profeta Mahoma, una espectacular expansión territorial. Además, es en su primer siglo de vida cuando se establecieron las principales ramificaciones musulmanas; plenamente vigentes hoy día. Es también en aquellos primeros años cuando, con los cuatro primeros califas, se establece el texto definitivo del Corán. Igualmente, se realiza la primera recopilación de la Sunna, o colección de hechos y dichos de Mahoma según testigos directos de los acontecimientos. De ambos, Corán y Sunna, se deduce la sharia, o ley islámica, que regula el conjunto de actividades públicas y privadas de todo musulmán.

Esos cuatro primeros califas fueron líderes políticos, hombres de acción y autoridades espirituales: el ejemplo ideal al que miran los musulmanes de todas las épocas.

Con Alí, yerno del Profeta y cuarto califa, se produce la primera gran fragmentación entre los musulmanes; que nos llega hasta hoy mismo. Al morir Alí asesinado, sus seguidores crearon un partido, la Chía, considerando que los califas Omeyas que le sucedieron carecían de legitimidad. Los chiíes, aunque respetan la Sunna, no aceptan que sea de carácter sagrado, tal como hacen los demás musulmanes (denominándose sunníes). Por el contrario, los chiíes atribuyen mucha importancia a las enseñanzas transmitidas por los doce imanes sucesores de Alí. El duodécimo y último de tales –el Mahdi- no habría muerto, esperando su retorno. Entre el clero chiíta –conocido bajo el término de mullah- destacan algunos expertos en la interpretación de la sharia, denominados ayatolás.

El chiísmo se caracteriza, además, por cierta desconfianza hacia el poder político, logrando muchas simpatías entre los musulmanes no árabes, especialmente en Irán, donde son inmensa mayoría. La creencia en el retorno del Mahdi, el imán oculto, ha generado una esperanza mesiánica cuya venida se producirá en la Hora Final, implantando un Reino de Justicia, por lo que el martirio tendría un carácter redentor. Un sociólogo iraní, Alí Shariati, asoció ese mesianismo chiíta con determinadas ideas marxistas. De este modo, consideraba que el Mahdi liberaría a los parias de todo el mundo, proporcionando una perspectiva revolucionaria al chiísmo.

A mediados del siglo IX, entre los sunníes, surgieron cuatro corrientes interpretativas que cristalizaron en otras tantas escuelas jurídicas, todavía hoy, únicas aceptadas por los sunníes: hanafí (de Abu Hanifa, la más liberal), la malikí (de Malik), la xafeití (de Chaffi, especialmente vigorosa en Egipto) y la hanbalí (originada en Bagdad, la más rigurosa y en la que se gestará el wahhabismo).

En la actualidad, en torno al 85% de los musulmanes de todo el mundo son sunníes, un 10 % chiíta y el resto pertenece a grupos muy minoritarios (drusos y otros). De todas formas, suniíes y chiíes no están absolutamente separados; siendo sus diferencias, matizadas discrepancias en cuestiones de interpretación y de aplicación de la ley, tanto en su plano individual como colectivo.

En su choque con el mundo occidental de finales del siglo XX y principios del XXI, el islam, ya sea sunnita o chiíta, se manifiesta en buena medida como una corriente radical o extremista poliédrica.

Por ello, dada la multiplicidad de sus expresiones, algunos expertos en la materia diferencian dos corrientes dentro del radicalismo musulmán:

  • Integristas. Es el caso de los wahhabitas y los Hermanos Musulmanes, por ejemplo. Valoran la Tradición ante todo, aunque respetan lo positivo que le se haya podido añadir.
  • Los fundamentalistas. Caso del chiísmo iraní y de los talibanes afganos. Desprecian lo que no proceda de los preceptos literales.

Todos ellos comparten su creencia en la imperativa articulación de la Umma (comunidad de los creyentes), como efecto ineludible de la recta aplicación del islam. La Umma debe estar unida políticamente y liderada por una autoridad, simultáneamente, civil y religiosa. Tal concepción, en consecuencia, deslegitima a los Estados actuales. Es más, a su juicio, todo nacionalismo sería una forma de shirka (adoración de algo distinto de Alá).

La época dorada del islam, correspondiente al liderazgo de los cuatro primeros califas, es la referencia de todos los musulmanes. Para unos musulmanes, de esa experiencia primigenia, destacarían los aspectos sociales y externos, tendencia representada por las escuelas reformistas. Para otros, prevalecería el esfuerzo por la perfección espiritual; reflejándose especialmente en las corrientes sufíes.

El sufismo.

El sufismo es objeto de gran interés en Occidente, especialmente desde la llamada New Age, al encontrar allí sugerentes ingredientes espirituales susceptibles de oferta en el supermercado religioso actual.

El sufismo no es una tendencia política. Espiritualista y tradicional, propone al fiel musulmán una experiencia religiosa personal; llegándose a hablar, incluso, de un misticismo sufí. Políticamente asumen generalmente posturas conservadoras, pero sin propugnar alternativas concretas. En la época colonial, muchos sufíes encabezaron la resistencia frente a las potencias ocupantes en sus respectivos países, perdurando todavía hoy la memoria de su lucha.

El wahhabismo y el salafismo, corrientes ortodoxas reformistas e integristas, se oponen a las prácticas sufíes, al considerar que difunden ciertas formas de superstición y que, en la práctica, han facilitado la decadencia musulmana.

El sufismo es, ante todo, según los propios sufíes, profundización e interiorización personal del islam. Aunque algunos autores han visto influencias de la mística cristiana, para otros, tales afirmaciones carecen de todo crédito.

El término sufismo (tasawwf) viene de sûf, o hábito de lana que llevaban los sufíes de los primeros siglos.

Son numerosos los sufíes de prestigio que han creado escuela y cuyos seguidores se agrupan en grandes cofradías, algunas extendidas por todo el mundo musulmán, o predominantes en determinadas zonas geográficas. Hassan al-Basri sería uno de los primeros. Nacido en Medina bajo el califato de Omar, la tradición cuenta que recibió sus enseñanzas del propio Alí, yerno del Profeta. Rabî`a al-`Adawiyya, nacido en Basra (sur de Irak), en el siglo II de la Hégira, sería otro de los primeros grandes sufíes.

Los sufíes practican las virtudes de la pobreza (faqr), abandono en la voluntad de Alá (tawakkul), así como la práctica del Dzikr (mención del nombre de Alá) al que pueden acompañar estados de éxtasis y ejercicios de meditación (fikr).

Otros sufíes incidieron en la gnosis (Ma`rifa) o conocimiento de Alá, caso de Nûn al Misri. De Yunayd, sufí de Bagdad, donde vivieron los más célebres, es la siguiente clarificadora sentencia: "El sufismo es lo que Alá hace morir en ti y vivir en Él". Que el sufismo fuera aceptado en su día, es mérito, en buena medida, de Al-Gazzâlî (1058-1111). Otro maestro sufí de Bagdad fue Abd-al-Qâdir al-Yîlâni (1077-1166), quien fue conocido como "Sultán de los Awliya" (íntimos en el saboreo de Alá). De Andalucía procedía Abû Madyan Shu’ayb. También andalusí era Muhhy d-Dîn ibn Arabî, autor de numerosos textos en los que trató la Doctrina de la Unidad del Ser.

Expresión fundamental del sufismo es la existencia de las llamadas cofradías, o Turûq (plural de tarîqa o vía espiritual). Las conforman los seguidores de determinados maestros sufíes, tal como señalábamos más arriba. Tal vez la más conocida sea la Mawlawî, de la que proceden los famosos derviches danzantes popularizados gracias al turismo masivo europeo practicado en Turquía. Las cofradías sufíes son numerosísimas, siendo su importancia en algunos casos enorme. Así, por ejemplo, varios de los rectores de la Universidad Al-Azhar de El Cairo, que goza de una indudable autoridad en el islam sunnita, han sido sufíes seguidores de uno u otro maestro. Otro caso llamativo, de celebridad sufí, es el de Abd al-Kader, líder de la resistencia argelina frente a los franceses. Por su parte, la cofradía u orden de los Sanûsiya, aunque de origen sufí, tiene gran parecido con el wahhabismo; así el sentido guerrero, su austeridad y el espíritu de sacrificio. Desempeñaron especial protagonismo en la lucha contra el colonialismo en el norte de África (Francisco Díaz de Otazu les ha dedicado un artículo en el número 63 de esta publicación digital). En Asia destaca la cofradía Naqshabandiyya. Fundada en el siglo XIV, se extiende desde Bujara a Turquía, desde China a Java, protagonizando el esfuerzo misionero musulmán en aquellas alejadas tierras.

Vemos, con todo ello, que el sufismo, como camino interior (bâtin), también ha influido en el exterior y la acción (zâhir).

El reformismo musulmán.

En el seno de la gran corriente salafiya (de salaf, grandes antepasados), que promueve la renovación islámica (nadha), surgen los llamados movimientos reformistas.

El wahhabismo es una forma de interpretación estricta del Islam que nace de la mano de Mohamed Ibn Abdul Wahhab y que pretende, al igual que los demás reformistas, la vuelta a la pureza de la época dorada del islam.

De esta forma, reformismo, integrismo y fundamentalismo, sin ser conceptos análogos, en buena medida coinciden.

Los reformistas afirman que sólo la aplicación de la sharia garantiza el orden moral de la comunidad de los creyentes. En ese sentido, todo gobierno es ajeno al espíritu musulmán, especialmente los de factura occidental. Sí serían auténticos gobiernos islámicos, por el contrario, los de los cuatro primeros califas, "los que caminan por el camino recto" (Rashidun): Abu Bekr, Omar, Othman y Alí, tal como veíamos al principio de este artículo.

La restauración del verdadero islam exige esfuerzos de todo tipo (yihad), tanto personales como colectivos, espirituales y materiales; lo que puede llegar a justificar la guerra, siendo su objetivo, en todo caso, la ordenación de toda la convivencia hacia lo justo, prohibiendo lo que consideran impuro. Esto supone el empleo del poder político, sin complejos, desde la fidelidad al Corán y a las tradiciones islámicas (hadits).

El reformismo, en la actualidad, es la principal corriente del islam y se caracteriza por una serie de rasgos comunes:

  • El islam afecta a todas las dimensiones de la vida, determinando, por tanto, la política y la sociedad.
  • La decadencia y parálisis de las sociedades musulmanas fueron consecuencia de su alejamiento del islam.
  • El islam viene determinado por el Corán, las tradiciones islámicas y las realizaciones de la primitiva comunidad musulmana.
  • El deber de todo musulmán es la yihad.
  • El islam es compatible con la tecnología y la ciencia moderna.
  • La restauración del islam exige la lucha de todo musulmán, integrado en organizaciones establecidas con tal fin.
  • La restauración del islam exige la vía de una revolución política y social.

El actual islam radical asume como propio todo este caudal reformista, al que matiza con varias precisiones:

  • El islam es víctima de una conspiración judía y cristiana. Occidente es el enemigo declarado del islam.
  • Un gobierno musulmán es legítimo es tanto aplique estrictamente la sharia.
  • Cristianos y judíos son considerados infieles; no como pueblos del Libro.
  • Todos los que se resisten al islam, ya sean musulmanes o no, son enemigos de Dios y merecen ser castigados con rigor.

Los reformistas entendieron que se había producido, históricamente, una profunda crisis en las sociedades musulmanas, lo que derivó en la desintegración del poder político, la paralización de la economía y de la ciencia, un estancamiento de la vivencia religiosa y una disminución de la creatividad artística. Todo esto habría coincidido con la eclosión de las potencias occidentales colonialistas; siendo víctimas de su política la mayor parte de los pueblos de tradición islámica. Por ello, la crítica a los regímenes coloniales constituye otra de las novedades del pensamiento reformista, siendo la lucha contra el sionismo, en la actualidad, una continuación de la lucha anticolonial.

Los movimientos reformistas son movimientos sociales antes que políticos; siendo ésta una característica fundamental para entender su naturaleza. Su objetivo principal es la formación de musulmanes piadosos, estudiosos del Corán y que practiquen el proselitismo a través de la predicación y las obras caritativas.

Todos los reformistas propugnan un estado islámico, es decir, gobernado por la ley islámica (la sharia). Ésta, al tener su origen en la revelación divina, no puede ser ni desarrollada ni cambiada: hay que aplicarla, pues debe ser aceptada sin crítica. La sharia es, igualmente, infalible, según los islamistas. Realmente, no hay codificación de la sharia.

El principal reformador fue Jamal al-Din al-Afghaní (1839 – 1897). Hay discrepancias sobre su lugar de nacimiento: en Irán según unos y en Afganistán según otros. Estudió en la India, viviendo la guerra civil de Afganistán en 1866. Se trasladó a Estambul, pero al año tiene que partir para Egipto a causa de las enemistades ganadas entre los clérigos musulmanes tradicionales. De 1871 a 1879 permaneció en El Cairo, rodeándose de un grupo de intelectuales musulmanes. Allí entra en la masonería, de donde es expulsado por su oposición al colonialismo. De nuevo vive en la India durante casi tres años. De allí se trasladó a París, donde fundó la revista Al–orwa al–wothqa ("el vínculo indisoluble"), recogiendo, en sus 18 números editados, los principios fundamentales del reformismo. Viajó a Irán, después lo hará a Rusia en 1889. En 1892 viaja a Inglaterra. Allí publicó artículos muy virulentos contra el sha, quien fue asesinado unos años mas tarde a manos de un discípulo de Jamal al–Din. Murió en Estambul. Su principal texto es el libro Refutación de los materialistas. Del wahhabismo se diferencia en su mayor conciencia crítica ante el desafío occidental.

Entre sus discípulos destacó el egipcio Mohammad Abdoh, quien reformó la futura universidad cairota de Al–Azhar. A partir de entonces, reformismo musulmán y política, en particular la lucha frente a las potencias coloniales, se mezclan de forma indisoluble.

Como consecuencia de su gran influencia floreció, inmediatamente, un importante elenco de intelectuales reformistas en todo el mundo musulmán, incluida la India.

Otro importante movimiento se enmarca dentro del gran río del reformismo: los Hermanos Musulmanes. Fundado por otro egipcio, Hassan Al Banna (1906 – 1949), se trata de un movimiento muy organizado y activista, que arraigó especialmente en Egipto, pero también en Siria, Palestina y otros países musulmanes. A su entender, la Umma es una sola nación, debiendo volver a las enseñanzas del origen del islam para recuperar su grandeza. A su muerte le sucedió Sayyid Qutb (1906-1966), quien murió ahorcado. Consideraba que el islam contiene un compendio suficiente de recetas para resolver los grandes problemas de toda época. Juzgaba que para la aplicación de su programa era imprescindible una revolución política. Los Hermanos Musulmanes fueron perseguidos, en Egipto, por Nasser y sus sucesores. En Siria también sufrieron una gran persecución de la mano del fallecido presidente Assad y su partido laico Baas.

El wahhabismo.

El wahhabismo estructura por completo la sociedad de Arabia Saudita y por ello es bastante conocido a través de los medios de comunicación, al menos, en sus rasgos externos. De hecho, aunque cuenta muchos seguidores en otros países islámicos, esta interpretación estricta sunnita únicamente se ha impuesto, por completo, en Arabia Saudita.

Mohamed Ibn Abdul Wahhab (1703 – 1787) es el teólogo que, en la tradición procedente de Ibn Hanbal (780 – 855) y de Ibn Taymiya (1263 – 1328) formuló esta corriente. La escuela jurídica hanbalí –ya lo hemos visto- es la más rigurosa de las cuatro existentes en el islam sunnita. Establece que la sharia proviene exclusivamente del Corán y de la sunna, o seis compendios de hadits (tradiciones complementarias del Corán, que recogen los hechos y las palabras de Mahoma). Rechaza todos los hadits y la jurisprudencia no coránica.

Mohamed Ibn Abdul Wahhab nació en Neyed, una provincia del centro de la península arábiga. Estudió en Medina, Irán e Irak. De regreso a su tierra, propugnó el retorno a un islam purificado. Organizó la comunidad de los "unitarios" (vinculados al principio de la Unidad divina), ganando numerosos adeptos a los que señaló unas creencias simples y un código moral muy estricto.

Sus creencias se pueden resumir en los siguientes principios básicos:

  • Sólo Alá es digno de adoración.
  • Las visitas a las tumbas de sabios y santos son ajenas al verdadero islam. De ahí arranca su profundo rechazo a las prácticas sufíes.
  • La introducción de nombres de santos en las oraciones equivale a incredulidad.
  • Cualquier creencia ajena al Corán, la Sunna, o deducciones de la razón, es equivalente a la incredulidad, lo que debe ser castigado con la muerte.
  • Cualquier interpretación esotérica se asimila a la incredulidad.

Se impuso la asistencia obligatoria a la oración colectiva en las mezquitas mediante medidas policiales, prohibió el alcohol, el tabaco y afeitarse la barba. Aplicó la sharia de forma literal (incluidas las penas corporales) según la escuela jurídica hanbalí. Mohamed Ibn Abdul Wahhab convirtió a su causa al emir Mohamed Ibn Saud, cuyo hijo, Abd al–Aziz, conquistó toda Arabia, amenazando Alepo, Bagdad y Damasco. Derrotado por un ejército egipcio, fue decapitado en Estambul.

Rebelándose contra la religiosidad decadente de los turcos, anteriores custodios de las mezquitas de La Meca y Medina, la reforma religiosa wahhabita se tiñó también de un marcado color político.

Pero su recuerdo perduró y otro líder árabe, también llamado Abd al–Aziz (conocido como Ibn Saud), en torno a 1926 fundó la moderna Arabia Saudita, con Medina y La Meca, a la vez que implantaba un islam riguroso según la interpretación wahhabita.

Arabia Saudita.

En Arabia Saudita, en la actualidad, predomina el wahhabismo en su aplicación estricta: mantiene la segregación de las mujeres, prohibe los cines públicos, no permite la conducción de vehículos por mujeres, cualquier práctica religiosa no musulmana en público o privado es perseguida, prohibe las cofradías místicas y el sufismo, aplica un código penal que acepta la amputación de la mano por robo, la flagelación, la lapidación, etc. Para mantener esas normas se creó la Mutawwa´in, una policía de carácter religioso.

Pero la familia reinante, dada su vinculación internacional con Estados Unidos de América, ha sido cuestionada por otros sectores islámicos de dentro y fuera. La ocupación de La Meca en 1979 fue consecuencia de esas graves tensiones internas. También el asesinato del presidente egipcio Sadat se enmarca en las tensiones planteadas por quiénes propugnan un islam purificado. Sin embargo, el magnicidio del rey Faisal de Arabia Saudita el 25 de marzo de 1975 a manos de un sobrino, si bien no está aclarado en sus motivaciones últimas, no parece que tenga ese mismo origen.

La presencia en suelo saudí de 35.000 norteamericanos, con motivo de la guerra del Golfo, suscitó las críticas y el resentimiento de un sector muy radical de ulemas y jeques sunnitas, wahhabitas radicales. En ese malestar podemos encontrar el caldo de cultivo del movimiento de Osama Bin Laden.

Expertos politólogos en la zona afirman que es una simplificación explicar la situación de este país como un enfrentamiento entre partidarios de Estados Unidos y radicales wahhabitas.

Desde 1744 se practica una alianza entre legitimidad religiosa y poder político: la familia real, los al-Saud, ostenta la legitimidad religiosa como protectora de la fe. Esto implica una serie de obligaciones.

Por otra parte, Arabia Saudita no presenta una realidad tan uniforme, tal como pueda parecer desde el exterior, afirman expertos en el área. Así, aseguran que existe de hecho cierto pluralismo: la ortodoxia wahhabita convive con algunas corrientes sunníes reformistas, grupos minoritarios chiíes, un movimiento opositor sunnita salafita y la pervivencia de prácticas sufíes en algunas zonas del país.

Esas tensiones internas no han impedido que, con el inmenso capital procedente del petróleo, desde Arabia Saudita se impulse al islam misionero de múltiples formas y en todo el mundo, habiéndose convertido en una de sus fuentes de financiación más importantes.

Las autoridades religiosas de La Meca –su Consejo de Ulemas- mantienen, además, una gran autoridad en todo el mundo musulmán. Sus ingresos petrolíferos permiten sufragar la peregrinación a La Meca de millones de musulmanes de todo el mundo. Construyen numerosas mezquitas y centros asistenciales, especialmente en África subsahariana, manteniendo a cientos de miles de refugiados palestinos. Igualmente, financian la construcción y el mantenimiento de enormes mezquitas en Europa (como la madrileña situada en la M-30 y, próximamente, otras en Barcelona, Las Palmas y Málaga), así como la expansión musulmana en Filipinas y Asia central.

¿Qué relaciones mantiene con las guerrillas y los grupos armados islamistas? Se trata de una cuestión muy compleja. En ese sentido, se ha señalado la posible alianza, en su día, entre importantes representantes del wahhabismo actual y el Frente Islámico de Salvación argelino. Y no olvidemos que el primero que reconoció al nuevo gobierno talibán de Afganistán, junto al de Pakistán, fue Arabia Saudita. También se ha señalado la confesionalidad wahhabita de buena parte de los dirigentes guerrilleros chechenos. Respecto a las incuestionables vinculaciones de algunos miembros de la numerosa familia real saudí con Osama Bin Laden, no es fácil determinar si tales apoyos son consecuencia de la mera solidaridad familiar o el fruto de comunes convicciones ideológicas. Lo que es indudable es la procedencia wahhabita de la mayor parte de dirigentes y demás integrantes de la red terrorista internacional Al Qaeda.

Otras presencias del wahhabismo en el mundo.

Nos asomaremos, brevemente, a su incidencia en Asia central y en los territorios de la antigua URSS; por su importancia estratégica y por tratarse de naciones en proceso de consolidación y de búsqueda de su identidad colectiva.

Empezaremos por los territorios de mayoría musulmana de la Federación rusa.

En Daguestán el wahabbismo ha chocado frontalmente con el sufismo, lo que supuso una auténtica guerra civil entre 1995 y 1998. En Osetia del Norte también ha hecho acto de presencia, mientras que en Ingushetia, Kabardino-Balkaria y Karachaevo-Circasia, las respectivas autoridades locales, de convicciones laicas, han intentado prevenir su penetración. Adigueya es la región menos islamizada del entorno.

El presidente de Chechenia, Aslan Aliyévich Masjádov, proclamó la República islámica el 5 de noviembre de 1997. El 11 de enero de 1999 anunció una nueva constitución y el 4 de febrero estableció la sharia como la única fuente del derecho checheno. Pese a ello, en los años anteriores, se había opuesto a los sectores que habían adoptado el wahhabismo (caso de Shamil Basáyev y Salman Radúyev), apoyándose en la tradición sunnita practicada en la zona, más próxima a las cofradías sufíes. El 5 de julio y, posteriormente, el 7 de agosto, grupos guerrilleros wahhabitas penetraron en Daguestán. Pese a ser derrotados por las fuerzas federales rusas, sirvió como motivo, junto a los atentados con bombas en Moscú, para el inicio de la segunda guerra ruso-chechena; generalizada al invadir las tropas rusas Chechenia el 30 de septiembre. Todavía hoy continúa la guerra, persistiendo núcleos terroristas en algunas zonas aisladas del interior de Chechenia y en países limítrofes. Con motivo de los atentados con bombas de Moscú, fue identificado como responsable de los mismos Atchemez Gotchiyev, un wahhabí natural de Karachaevo-Circasia. Su lugarteniente era Denis Saitakov, un uzbeko de madre rusa, que había estudiado en una escuela coránica de la república de Tatarstán y que se había entrenado en Chechenia bajo las órdenes del comandante Amir Jatteb, otro mítico guerrillero wahhabí, al parecer jordano.

Hace unos meses la Universidad Islámica de Rusia, localizada en el Tatarstán, un territorio que forma parte de la Federación rusa y que se caracteriza por un marcado acento laicista de total subordinación de la religión al poder político, licenció a su primer grupo de estudiantes coránicos. Estos licenciados pasaron a mezquitas y centros educativos de diversos lugares de Rusia, para atender a parte de los 20 millones de musulmanes que viven en la república. Su rector, Abdurrashid Jazrat Zakirov, afirmó que el wahhabismo está excluido de los planes de estudio. Las autoridades rusas vienen apoyando esta institución para prevenir la penetración de las corrientes wahhabitas.

En Uzbekistán las autoridades locales apoyan a la orden sufí Naqshabandiyya, en un intento de contrarrestar al fundamentalismo musulmán. Dicha orden lideró la lucha antirusa desde la ocupación por los Zares. Este empleo del sufismo local viene de lejos. Durante años, el NKVD y el KGB gobernaron Chechenia–Ingushetia con la ayuda de los dirigentes de dicha orden local sufí. Por ello, muchos musulmanes acusaron a los sufíes locales de colaboracionismo con las autoridades ateas y comunistas. Doku Zavgayev, presidente del Soviet Supremo de Chechenia-Ingushetia en 1990 y cabeza del gobierno pro-ruso en 1996 en Chechenia, era miembro de la orden Naqshabandiyya.

En Kazajistán y en Kirguizistán también se han detectado labores de proselitismo wahhabita, si bien las autoridades políticas intentan detener ese avance mediante el control de las autoridades religiosas.

Azerbaiyán cuenta con un 70% de población chiíta. El islam, desde el desmoronamiento del comunismo, también ha avanzado públicamente allí, si bien existe una división entre las elites: quiénes miran a Irán, modelo de teocracia islámica y quiénes lo hacen hacia la vecina Turquía y su modelo occidental y laico.

Tayikistán ha sufrido durante años el acoso constante de guerrillas fundamentalistas, favorecido por la proximidad de Afganistán. También allí predomina la cofradía sufí local Naqshabandiyya.

¿Incide el wahhabismo en el vecino Marruecos? Allí predomina el malekismo oficial. Con todo, algunos ulemas han pedido a Mohamed VI que defienda la "soberanía del culto" marroquí, en tanto que "Príncipe de los creyentes", frente al pujante wahhabismo; todo ello según recientes informaciones de elsemanaldigital.com.

Wahhabismo en España.

El wahhabismo, estamos viendo, desarrolla una ofensiva en todo el mundo siguiendo cuatro líneas de acción: expansión misionera mediante cuantiosas inversiones en el África subsahariana, reislamización de los musulmanes de las antiguas repúblicas soviéticas, progresivo control de los musulmanes emigrados a países no islámicos y captación al islam de antiguos cristianos. España, en su contexto, no permanece ajena a tal ofensiva.

Podemos destacar tres factores claves de la situación del islam español: la división de las entidades y organizaciones musulmanas, la pertenencia al sunnismo moderado de la mayoría de los fieles aquí radicados (siendo su grupo principal el de los procedentes del vecino Marruecos), y el chorreo de dinero saudita. En estas circunstancias, el wahhabismo empieza a gozar de cierto predicamento en las mezquitas españolas, si bien existen numerosas organizaciones y entidades islámicas de todo tipo: cofradías sufíes, asociaciones de conversos españoles, grupos chiíes… lo que parece indicar de momento un islam poco monolítico y plural.

Precisamente, esta circunstancia de fragmentación asociativa quiere ser aprovechada por las autoridades wahhabitas, según informó recientemente el diario La Razón en un interesante estudio de R. Ruiz y C. Serrano. El primer paso en su estrategia expansionista sería la constitución y control de un Consejo Superior de Imanes de España, ya en tramitación, dotado de capacidad para la emisión de dictámenes de jurisprudencia islámica (fatwas) y concebido como la "autoridad religiosa islámica, científica y total". Uno de sus instrumentos sería la construcción de nuevas mezquitas. Así, se unirían en los próximos años a las ya construidas en Marbella y Madrid, la proyectada en Barcelona y otras en Las Palmas de Gran Canaria y Málaga (ciudad a la que se desplazó el Ministro de Asuntos Islámicos de Arabia Saudita para supervisar proyectos cuantificados en cuarenta millones de dólares). Esta estrategia estaría coordinada por el director del Centro Islámico de Madrid, contando con el apoyo del Consejo Continental Europeo de Mezquitas, la Liga Islámica Mundial, la Organización Rabita y la Comisión del Waqf Europeo. Su labor se complementaría con la formación científica y teológica de los futuros imanes (generalmente, de escasa capacitación) en las doctrinas wahhabitas y una generosa financiación.

En la mencionada crónica se informaba, igualmente, de la lucha interna existente dentro de la principal organización islámica española, la Federación Española de Entidades Religiosas Islámicas, por el control de su liderazgo; pugna en absoluto ajena a las actividades de los hombres del wahhabismo en España. En todos estos planes, de extensión de la hegemonía wahhabita en España, particularmente en Málaga, ocuparía una posición clave el imán Mohamed Kamal Mostafa, director de la mezquita de Fuengirola, quien justificó en un libro el maltrato de las mujeres por sus maridos, generando con ello una gran controversia en los medios de comunicación españoles.

Algunas reflexiones finales.

Buena parte de los gobiernos de Oriente próximo han procurado evitar el contagio del fundamentalismo en sus distintas vertientes –chiíta, wahhabita, salafita- mediante una islamización de las leyes, alejándose de esta manera de los modelos occidentales. Sin duda, tales medidas han contribuido a transformar profundamente esas sociedades musulmanas.

El islam avanza, en mayor medida o menor medida, en todo el mundo. Sorprende, por ejemplo, el aumento de conversiones al islam producidas entre los afroamericanos de Estados Unidos; recordemos a la organización Nación del Islam, protagonista de espectaculares movilizaciones multitudinarias. Pero también se han producido captaciones entre miembros de otras etnias; incluso de anglosajones (¿recuerdan al talibán norteamericano?). Igualmente, encontramos incipientes comunidades musulmanas en lugares tan poco proclives, aparentemente, al islam, como es el caso de Perú.

La creciente presencia musulmana también preocupa en Europa desde la concreta perspectiva de la seguridad, pues esas comunidades podrían contagiarse del afán misionero de sus hermanos en la fe y ensanchar en el futuro una fractura social, ya existente, sin precedentes. De hecho, ha generado una profunda preocupación la facilidad con la que se han desenvuelto en Europa los distintos integrantes de la red internacional de Al Qaeda implicados en los atentados del 11 S, gracias al apoyo que han encontrado en medios islámicos. Frente a unas incipientes y jóvenes comunidades, unidas por su fe islámica, la población autóctona europea se caracteriza por un progresivo envejecimiento y por carecer de firmes convicciones sin aparente ambición de futuro. El discurso ideológico predominante en Europa, "políticamente correcto", habla, ante todo, de tolerancia, multiculturalismo y pluralismo; ignorando los profundos desajustes sociales existentes y la realidad de unas comunidades cerradas, herméticas e impermeables a los principios oficiales de una laicidad neutra. En este complejo contexto, el joven islam europeo puede plantear, en un futuro inmediato, imprevisibles desafíos de indudables efectos sociales y políticos.

Bruce B. Lawrence, jefe del Departamento de Estudios Religiosos de la Universidad de Duke, aseguró recientemente que Osama Bin Laden "tiene secuestrado al wahhabismo". A su juicio, es la pureza espiritual el objetivo del wahhabismo, mientras que las concomitancias militaristas de Osama Bin Laden lo aproximarían al fascismo, una ideología ajena al islam.

Es decir, para algunos, el wahhabismo es rehén de Bin Laden y sus extremistas. Para otros, ya lo veíamos en palabras de Stephen Schwartz, al contrario, Bin Laden y Al Qaeda son su consecuencia. En cualquier caso, nos enfrentamos a una situación nueva, dramática y universal, cuyas implicaciones religiosas, sociales, políticas, estratégicas, económicas y de seguridad, no alcanzamos, todavía, a vaticinar en todo su alcance.

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Fernando José Vaquero Oroquieta

jeudi, 12 mars 2009

Golfe: la Pax Americana contre l'Europe et le Japon

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ARCHIVES DE SYNERGIES EUROPEENNES - 1995

 

Golfe: la pax americana contre l'Europe et le Japon

Entretien avec Stefano Chiarini

 

Stefano Chiarini, envoyé spécial au Moyen-Orient du journal Il Manifesto, est aussi le directeur des Editions Gamberetti qui, depuis trois ans, se sont spécialisées dans les thématiques de politique interna­tionale, en s'intéressant plus particulièrement à la problématique Nord/Sud, à la question palestinienne et aux minorités ethniques en Europe. Parmi les titres les plus significatifs parus dans leurs collections “Orienti” et “Equatori”, signalons "Amicizie pericolose" d'Andrew et Leslie Cockburn, sur les rapports entre la CIA et le Mossad, "Anno 501, la conquista continua" de Noam Chomsky et l'anthologie de récits "Strade di Belfast", dû à la plume du leader du Sinn Fein, Gerry Adams.

 

Q.: Quand sont nées les Editions Gamberetti?

 

SC: En gros, après la Guerre du Golfe. J'y avais été envoyé spécial. Revenu en Italie, j'ai participé à de nombreux débats sur la question et je me suis aperçu combien la réalité des faits avait été manipulée. Les mass media, le télévision en tête, mais aussi les quotidiens et les revues, nous ont donné une image complètement distordue de ce conflit. Nous avons donc voulu répondre à une exigence intellectuelle: ap­profondir le sujet et fournir une documentation adéquate sur ces événements en particulier et, de façon plus générale, sur tout ce qui se passe sur la scène moyen-orientale.

 

Q.: Que s'est-il passé réellement à Bagdad en 1991?

 

SC: On a surtout pu constater les premiers effets de la disparition de l'URSS. Quand l'Union Soviétique était là, et qu'elle était forte, les Américains n'auraient jamais osé entreprendre ce qu'ils ont entrepris. Autre aspect à prendre en considération: la guerre du Golfe a davantage été une guerre contre l'Europe et le Japon que contre l'Irak; cette guerre a été menée par l'Amérique pour qu'elle puisse contrôler directe­ment les sources d'approvisionnement énergétique. Les Etats-Unis n'ont plus agi par l'intermédiaire d'Israël. Leur rôle dans la région où se trouvent les principales sources de pétrole de la planète est apparu en pleine lumière. Depuis lors leur mainmise sur la région est allée en s'accélérant. Enfin, pour imposer la pax americana entre Israël et les Palestiniens, les Etats-Unis devaient nécessairement “redimensionner” l'unique pays encore en mesure de leur provoquer des problèmes dans la région, c'est-à-dire l'Irak, riche en pétrole, disposant d'une armée capable d'intimider ses adversaires potentiels, présentant une cohé­rence interne assez satsifaisante. Le pétrole doit donc rester aux mains des émirats et des cheiks, de tous les pays possédant des régimes de ce type, forts sur le plan économique mais faibles sur le plan mili­taire. L'Irak était l'unique pays arabe qui avait et de l'eau et du pétrole, une population assez nombreuse, un bon niveau technologique et une armée relativement solide. En puissance, c'était le pays le plus indé­pendant et le moins facile à faire chanter de toute la zone.

 

Q.: Et l'Iran?

 

SC: Je ne me réfère qu'aux seuls pays arabes. L'Iran avait été détruit préalablement par l'Irak, manifes­tement sur ordre des Américains eux-mêmes. Dont la duplicité comportementale est désormais évidente. La diplomatie américaine est prête dorénavant à détruire ou à aider les intégrismes au gré de ses conve­nances. N'oublions pas que l'Arabie Saoudite est nettement plus intégriste que l'Iran, tout en entretenant des rapports optimaux avec les Etats-Unis, au point d'être son meilleur allié dans la région.

 

Q.: Il me semble que les éditions Gamberetti ont évité jusqu'ici d'aborder le problème “islamique”, et se sont concentrées exclusivement sur les pays et les mouvements “laïques”...

 

SC: Nous nous sommes préoccupés par exemple de la question palestinienne qui est en quelque sorte la clef de voûte de la région. D'après moi, le problème n'est pas tant celui de l'intégrisme, car, comme on le voit, les Etats-Unis tentent de se rapprocher de l'Arabie Saoudite, mais bien plutôt celui de la distribution des ressources. Le thème des mouvements islamiques est certes un thème fort important, mais ne cons­titue nullement le nœud gordien du Moyen-Orient. Le nœud du problème est celui de l'accès aux plus im­portantes sources énergétiques de la planète et de la distribution des ressources. Les Etats-Unis sont tout prêts à s'allier avec ceux, intégristes ou laïcs, qui leur consentiront l'accès et le contrôle du pétrole; et sont prêts à annihiler militairement et politiquement ceux qui tenteraient de leur barrer la route.

 

(propos recueillis par Pietro Negri, pour le magazine romain Pagine Libere, n°2/1995).

vendredi, 06 mars 2009

Arabisch geld voor de Palestijnen?

Arabisch geld voor de Palestijnen?

Geplaatst door yvespernet

http://www.spitsnieuws.nl/archives/buitenland/2009/03/arabieren_geen_cent_voor_pales.html

De Arabische landen beloofden 1,3 miljard dollar aan de Palestijnen, maar voorlopig heeft nog niemand een cent overgemaakt. De officiele lezing is dat Hamas en Fatah het niet eens zijn over de besteding van de gelden. De Arabische landen stonden na de Israelische invasie in de rij om in het openbaar te roepen dat ze hun broeders zouden steunen.

Maar nu het op betalen komt, verzandt de hele actie in vergaderingen. Morgen wordt er verder over gesproken in Egypte. Saoedie Arabie beloofde een miljard, Qatar 250 miljoen en Algerije 100 miljoen.

Zo kan ik mij ook de actie naar aanleiding van de tsunami herinneren. Toen gaven de Arabische landen hun moslimbroeders- en zusters ook maar een peuleschil. In het geval van Palestina beloven Arabische landen veel, maar laten zij liever de sociale problemen in hun land bestaan en gebruiken ze Israël als afleiding om het protest tegen de grote ongelijkheid in hun eigen landen stil te houden.

Met de hulp van de CIA e.d. houden Arabische landen ook gematigde bewegingen tegen die de landen willen hervormen. Op die manier hebben zij zelf de radikale moslims een voedingsbodem gegeven, vaak hebben ze die radikale moslims ook actief gesteund. Willen we de moslimterroristen tegenhouden, dan is het dringend tijd om te werken aan een alternatief voor de huidige corrupte regimes. Want het is wel héél triestig gesteld als een racistische staat als Israël op het vlak van mensenrechten e.d. een palmares kan voorleggen dat op vele vlakken beter is dan de Arabische regimes…

mercredi, 14 janvier 2009

Gaza: Israël n'a rien à gagner sur le plan politique

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Günther DESCHNER :

Gaza : Israël n’a rien à gagner sur le plan politique

 

On est plutôt prompt à penser que la culpabilisation, que l’acte de désigner le coupable, est l’affaire des lobbyistes. La plupart des hommes politiques et des journalistes s’emparent aujourd’hui de la nouvelle guerre au Proche Orient, que mène actuellement Israël, et prennent parti avec tant d’aplomb qu’on a l’impression qu’ils considèrent comme inopportunes et incorrectes toute connaissance approfondie de la question, toute objectivité et toute indépendance d’esprit. Trop de faiseurs d’opinion, de pontes médiatiques et de politiciens posent aujourd’hui des jugements à l’emporte-pièce, préfabriqués, tant et si bien qu’on pourrait penser, si l’on venait d’une planète lointaine, que l’histoire du Proche Orient vient à peine de commencer il y a deux semaines, quand, tout à coup, une bande ensauvagée de fous islamistes et antisémites, la barbe drue, aurait jailli du cloaque de Gaza et aurait, tout de go, commencé à tirer des fusées, par eux-mêmes bricolées, sur Israël, une Etat qui ne veut que la paix. Et que maintenant l’aviation israélienne leur donne la leçon qu’ils ont pleinement méritée. La plus pénible fut la Chancelière Angela Merkel qui sombra dans les simplismes outranciers, en déclarant : « Seul le Hamas est responsable de l’escalade ».

 

Mais, voilà, l’histoire n’est ni aussi simple ni aussi unidimensionnelle. Cela nous rappelle un peu la fameuse notion de « ruse de l’histoire » chez Hegel, lorsque nous lisons dans les journaux que ce sont surtout les frappes du Hamas, depuis Gaza, contre la ville littorale d’Achkalon, qui ont justifié les attaques d’Israël contre la Bande de Gaza. Or ce sont justement les Palestiniens qui vivaient à Achkalon et dans sa région, une ville qui s’appelait à l’époque Madchal, qui ont été dépossédés et expulsés en 1948 par les Israéliens. Ils se sont retrouvés à Gaza. Ce sont eux, ou plutôt leurs enfants, petits-enfants et arrière-petits-enfants qui constituent une bonne part du million et demi de fugitifs palestiniens parqués sur les 360 km2 que l’on a appelé, depuis lors, la Bande de Gaza. Les dimensions de celle-ci correspondent à peu près à la moitié de la superficie de l’agglomération de Hambourg et la densité démographique y est deux fois plus importante. Voilà le noyau du problème. Tous ces gens n’ont jamais eu aucune raison ni aucune occasion d’oublier la conquête de leurs terres, l’expulsion des leurs et la misère de leur condition de réfugiés. Cela n’excuse pas certaines de leurs réactions anti-israéliennes, mais cela les expliquent.

 

Depuis qu’existe Israël, donc depuis soixante ans, les tensions irrésolues n’ont cessé de s’accumuler et elles sont les plus perceptibles à Gaza. Cette ville est un cauchemar pour les deux partis. Déjà David Ben Gourion avait exprimé sa crainte en 1948, quand il a donné l’ordre aux troupes sionistes d’entrer dans la région. Dans les années 90, les premiers ministres israéliens Yitchak Rabin et Shimon Peres souhaitaient clairement la disparition de Gaza ; ils disaient qu’il fallait tout simplement couler la Bande et l’expédier au fond de la mer.

 

On ne sait pas quand le sang cessera bientôt de couler à Gaza : quoi qu’il en soit, la pause et le répit ne seront que les préludes de nouvelles catastrophes. Les experts ès questions militaires se demandent ce qu’Israël cherche à gagner en lançant ses troupes à l’assaut de la Bande. Car le but officiel de toute l’opération, selon le ministre de la défense Ehud Barak, reste vague. Les militaires israéliens disent vouloir forcer « un changement radical de la situation en matière de sécurité dans le Sud d’Israël », afin que cette partie du pays ne soit plus menacée dans l’avenir par les tirs de missiles des Palestiniens. Ne s’agit-il pas plutôt qu’un coup politicien en vue des élections prochaines, qui auront lieu en février ? Ou s’agit-il vraiment de conjurer une menace mortelle ?

 

Ceux qui critiquent l’action de l’armée israélienne évoquent la disproportion des moyens : au cours de ces sept dernières années, 17 Israéliens ont été tués par des missiles tirés depuis la Bande de Gaza. Certes, Israël a le droit indiscutable de ne pas accepter plus longtemps cette menace qui pèse sur ses citoyens et d’invoquer son droit à se défendre. En Occident, mais aussi à Berlin, ce droit est posé comme « non négociable ». Dans le même laps de temps, plus de 4000 Palestiniens ont été tués lors d’opérations israéliennes. En Cisjordanie, d’où aucun missile n’est lancé, 45 Palestiniens ont été tués par les Israéliens, rien qu’en 2008. Les Palestiniens, dès lors, évoquent, eux aussi, leur droit à se défendre. Ils ne comprennent pas pourquoi personne ne considère ce droit comme « non négociable » ou le dénonce comme du « terrorisme ».

 

Assurément, Israël, qui est la principale puissance militaire du Proche Orient, emportera la victoire dans l’actuelle « Guerre de Gaza », du moins sur le plan militaire. Mais, en revanche, sur le plan politique, Israël ne gagnera rien. L’opération militaire, qui n’est pas la première, loin s’en faut, ne préparera pas le terrain, à Gaza, pour des partis politiques fiables et compétents, que les Israéliens pourront prendre comme interlocuteurs. Les groupes radicaux ne mettront jamais vraiment un terme à leurs attaques, si les conditions politiques et économiques ne changent pas. Même Israël, tout puissant, n’a pas réussi à empêcher ces attaques lorsque ses armées occupaient Gaza et tenaient la région sous son contrôle. Le Hamas ne disparaîtra pas si on le boycotte et si, simultanément, on affame 1,5 million de Palestiniens.

 

Les objectifs du Hamas sont les suivants : arrêter les opérations militaires, mettre un terme au blocus de la Bande de Gaza et ouvrir tous les points de passage sur la frontière. Depuis avril 2008, dans les rangs du Hamas, on discute ferme pour savoir si l’on reconnaîtra Israël ou non, du moins dans les frontières de 1967, telles qu’elles sont reconnues par le droit international. Cela correspond exactement au plan que l’Arabie Saoudite, en tant que puissance très influente du monde arabe, a suggéré maintes fois. Négocier sur base de telles requêtes rapporterait plus à Israël que cette succession interminable de guerres,  d’armistices, d’actions de représailles, d’attaques suicides et d’assassinats « ciblés », qu’il connaît depuis plus de soixante ans. Quant à l’influence iranienne, qu’Israël perçoit comme une menace pour ses intérêts vitaux, elle ne cessera de croître au fur et à mesure que disparaîtra l’espoir des Palestiniens d’obtenir un Etat, qui soit le leur

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Günther DESCHNER.

(article paru dans « Junge Freiheit », Berlin, n°3/2009 ; trad. franç. : Robert Steuckers).

dimanche, 30 novembre 2008

J. Heers: les Barbaresques: de très étranges pirates

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Les Barbaresques - De très étranges pirates
Nous avons lu pour vous Les Barbaresques, la course et la guerre en Méditerranée XIVe-XVIe siècle, par Jacques Heers (Perrin, août 2001, 370 pages, 22,20 €.
Le souvenir des frères Barberousse et des Barbaresques d'Alger hante nos livres d'Histoire en traînant derrière lui de nombreuses interrogations.

Les historiens français se sont rarement intéressés à ces corsaires turcs qui bénéficièrent de la bienveillance contre nature du roi François 1er.

Considérant l'alliance sacrilège du roi Très-chrétien avec le sultan Soliman le Magnifique, l'historiographie traditionnelle en cherche la justification dans le souci de desserrer l'étau constitué par les possessions de son rival, Charles Quint, empereur d'Allemage, roi d'Espagne, suzerain des Pays-Bas et grand-duc d'Autriche.

Le grand historien médiéviste Jacques Heers tord le cou à cette interprétation complaisante. La réunion sur la tête de Charles Quint de la couronne impériale et de la couronne d'Espagne a été moins un atout qu'une faiblesse, comme le montre le fait qu'au terme d'un long règne semé de déconvenues, il n'a rien trouvé de mieux que de séparer ses possessions, laissant l'Espagne à son fils Philippe et le Saint Empire romain germanique à son frère Ferdinand.

Dans les faits, François 1er, peu soucieux de protéger le pré carré capétien, a poursuivi toute sa vie les chimères d'outre-monts. Il a usé ses forces à tenter de conquérir l'Italie et c'est pour cela qu'il a combattu Charles Quint et noué des relations avec les Turcs.

Au lendemain de la défaite de Pavie, en 1525, sa mère Louise de Savoie envoie des émissaires auprès du sultan, lequel s'empare de la Hongrie l'année suivante et arrive aux portes de Vienne sans que la France ne s'en soucie outre mesure.

Dans le même temps, les Français encouragent les corsaires turcs basés à Alger dans leurs attaques contre le littoral italien. Au célèbre Kheir ed-Din, alias Barberousse, allié de François 1er, s'oppose le Gênois Andrea Doria, un corsaire du camp autrichien.

Leur champ de bataille est la Méditerranée occidentale. Razzias ( *) des villages côtiers, attaques des navires marchands, et surtout rafles de prisonniers par milliers et dizaines de milliers.

Les prisonniers, hommes, femmes et enfants, sont vendus comme esclaves sur les marchés ou rétrocédés contre rançon à l'image de Miguel Cervantès, le futur auteur de Don Quichotte.

Jacques Heers fait ressortir le caractère inexpiable de ces guerres méditerranéennes, où s'affrontent indistinctement musulmans et chrétiens. L'historien souligne leur différence d'avec les guerres féodales de l'Europe septentrionale, encadrées par un code chevaleresque assez strict.

En 1535, l'empereur Charles Quint en personne dirige une expédition pour venir au secours du bey musulman de Tunis, menacé par les corsaires turcs d'Alger (on commence à utiliser à propos de ces derniers le terme impropre et fantaisiste de Barbaresques).

Tunis devient pour quelques années un protectorat de l'empereur. Le roi de France, quant à lui, ne renonce pas à ses ambitions italiennes.

En 1543, au terme de bizarres tractations, Barberousse promet à François 1er l'appui de ses hommes pour de nouvelles attaques dans la péninsule.

En attendant, il obtient de s'établir à Toulon. C'est ainsi que pendant les longs mois de l'hiver 1543-1544, les habitants du port et de ses environs vont devoir cohabiter avec... 30.000 corsaires musulmans de toutes origines.

La cathédrale Sainte-Marie-Majeure est pour l'occasion convertie en mosquée. Tout cela pour rien. Les corsaires ne se battront pas pour le roi de France et celui-ci, lassé de leur présence, verse une rançon pour précipiter leur départ.

La bataille de Lépante voit la défaite de la flotte turque face aux galères espagnoles mais les corsaires n'en continuent pas moins d'écumer la mer Méditerranée. Au XVIIe siècle, les galères du roi Soleil, Louis XIV, sous le commandement d'Abraham Duquesne, attaquent leurs repaires d'Afrique du nord. Mais c'est seulement avec la conquête d'Alger en 1830 que s'achève leur douteuse épopée.

Jacques Heers a écrit un essai passionnant autour de cette Histoire méconnue, pleine de bruit et de fureur. Le récit est dense, argumenté, riche d'anecdotes vivantes et épiques. Pour tous les amoureux de la grande Histoire.

André Larané.

dimanche, 19 octobre 2008

M. Aflaq y el BAAS

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Michel Aflaq y el BAAS: un cristiano en los orígenes del nacionalismo árabe moderno.

por José Basaburua (Revista Nº 31)

En el nacimiento del moderno nacionalismo árabe, laico y socialista, encontramos a un cristiano sirio: Michel Aflaq.

Michel Aflaq.

 

El partido BAAS (trascrito en castellano también como BAAZ y BA´TH), motor del nacionalismo árabe moderno junto al naserismo, está inseparablemente unido, durante sus primeros 20 años de existencia, a la personalidad de Michel Aflaq.

 

En la fundación de este partido destacan dos personalidades: el cristiano sirio Michel Aflaq, nacido en 1.910, como teórico del partido y Salah Bitar como organizador. Ambos formaban parte de la pequeña burguesía de Damasco. Estudiaron en La Sorbona, donde contactaron con las ideologías en pugna en los años 30 en Europa: marxismo y fascismo.

 

Michel Aflaq regresará a Damasco, donde trabajará de profesor de historia, a la vez que destaca como doctrinario de ideas nacionalistas árabes y anticolonialistas.

 

Conoce la prisión en varias ocasiones. En 1.939 es arrestado por la administración francesa. Participa en la fundación de diversos círculos políticos que darán origen al futuro partido BAAS. En 1.948 es encarcelado, encabezando entonces el gobierno Shukri el Quwatli. En 1.949 es encarcelado de nuevo por Husni El Zaim, autor del primer golpe de estado en Siria tras la independencia de la potencia colonial. Bajo el gobierno de Adib El Shishakli entra otra vez en prisión en 1.952 y posteriormente en 1.954.

 

El partido BAAS.

 

El partido BAAS es fundado por un grupo de intelectuales árabes, fundamentalmente de Damasco, destacando como teórico el mencionado Michel Aflaq. De carácter nacionalista, socializante y panarabista, al partido BAAS (resurgimiento o renacimiento, en árabe) se organiza en casi todos los países árabes, incluso dentro de la OLP con Al Saiqa, alcanzando el poder en Siria e Irak en 1.963. A lo largo de los años, sufre tanto en Siria como en Irak diversas vicisitudes, por lo que las escisiones y los enfrentamientos internos dará lugar a la presencia de numerosos partidos de inspiración baasista en diversos países árabes. Así, por ejemplo, en Líbano llegarán a existir hasta 3 partidos baasistas enfrentados entre sí.

 

Las dos columnas doctrinales sobre las que se asienta, ya en sus orígenes, el partido BAAS son el nacionalismo y el socialismo. Así, cada país árabe formaría parte de la gran nación árabe, por lo que la actual estructura estatal, heredera en parte del colonialismo europeo, debiera desaparecer progresivamente. La segunda columna del edificio teórico del baasismo es el socialismo, poco definido y, en cualquier caso, no marxista. Ambos conceptos estarían inseparablemente unidos dentro de un proyecto revolucionario y de transformación; en palabras de Aflaq:

 

“La identificación que efectuamos entre la unidad (árabe, n.d.a.) y el socialismo consiste en dar cuerpo a la idea de la unidad. El socialismo es el cuerpo y la unidad es el alma, si así puede uno decir” 1 .

 

Las fuentes consultadas señalan cierta confusión en los orígenes y primeros años de la vida del partido.

 

Los orígenes más remotos del BAAS los encontramos hacia 1.941 cuando Michel Afaq y Salah Bitar crean un comité sirio de apoyo a Iraq, para evitar su entrada en la segunda guerra mundial.

 

Según Wahib al Ghanem2, uno de los primeros dirigentes, el BAAS nace de la fusión de dos grupitos: Ihya el Arabi (la reanimación árabe) de Michel Aflaq y Baas el Arabi (la resurrección árabe) de Takri Arzuzi.

 

Es en 1.947 cuando se celebra el primer congreso del mismo, coincidiendo en ello los diversos autores, al que asisten 247 intelectuales procedentes de diversos países árabes. Los asistentes tenían orientaciones ideológicas muy distintas, lo que le llevó a un acuerdo programático final de compromiso, muy genérico. Esa aparente debilidad ideológica inicial permitió, en el futuro, un amplio margen de flexibilidad táctica y doctrinal. En dicho congreso se nombra a Aflaq presidente y Salah Bitar como secretario general. El primer comité ejecutivo lo formarán Salah Bitar, Yalal As – Sayid y Wahib al Ghanem.

 

El BAAS desde su nacimiento, en parte por lo genérico de su programa en diversos aspectos, es un partido realista y flexible en sus alianzas con otras fuerzas políticas, por lo que pactará con nasseristas o comunistas, por pura conveniencia en aras de alcanzar el poder.

 

Sus principales ideas originarias eran:

 

1. Los pueblos árabes forman una unidad política y económica a la que denominarán: nación árabe, expresión que logrará gran fortuna.

 

2. La nación árabe también es una unidad cultural.

 

3. Sólo los árabes, como habitantes de la nación árabe, tienen derecho a determinar su futuro. De ahí su inicial posicionamiento frente al colonialismo y su neutralismo doctrinal.

 

El partido sufrió diversas transformaciones, incorporándose al mismo otros partidos socialistas y nacionalistas que ensancharían su base sociológica, muy estrecha en sus orígenes (intelectuales, básicamente). Así, en 1.954, el BAAS se fusiona con el partido Arabe Socialista de Akram Hurani, por lo que desde entonces adopta el socialismo como seña de identidad, si bien para otros autores, su denominación de “socialista” figuró ya desde 1.947

 

El objetivo fundamental del BAAS era la unidad de la nación árabe y el partido se definirá en su constitución, por ello, como árabe, nacionalista, socialista, democrático y revolucionario.

 

Ideología de Michel Aflaq.

 

Durante su estancia en París, inicialmente ambos fundadores simpatizarán con el nacionalsocialismo alemán, por haber conseguido a su juicio, una síntesis entre ambos conceptos, que ellos quieren aplicar al mundo árabe. Como causa de su debilidad diagnosticarán la fragmentación territorial y del poder de los árabes. En concreto, algunos autores se remiten al teórico alemán Alfred Rosenberg como inspirador de ambos3.

 

Nacionalismo y socialismo son las columnas fundamentales sobre las que se sostiene la ideología de Aflaq y que trasladará al BAAS.

 

Dada su confesión cristiana, greco – ortodoxo en concreto, veamos su posición frente al islamismo. Algunos autores, egipcios especialmente, considerarán que nacionalismo e Islam eran incompatibles. Tal pretensión se intenta desmentir desde las altas instancias del partido. Lógicamente, Michel Aflaq, como principal teórico del partido, ya en 1.943 señalará que:

 

“El Islam presenta la imagen más brillante de su lengua y de su literatura (árabes, n.d.a.), y la parte más importante de su historia nacional es indisociable de él, porque el Islam en su esencia y en su verdad es un movimiento árabe que representa la renovación y la culminación de la realidad, porque descendió a su suelo y en su lengua, porque el apóstol (Mahoma) es árabe y los primeros héroes que lucharon por el Islam y lo hicieron triunfar fueron árabes, porque su visión de la realidad se identificaba con el espíritu árabe, las virtudes que fomentó eran virtudes árabes, implícitas o explícitas, y los defectos que fustigó eran defectos árabes en vías de desaparecer” 4 .

 

Para Michel Aflaq el Islam se había regenerado en la época moderna en el nacionalismo árabe.

 

En cualquier caso, pese a tales afirmaciones, el BAAS siempre ha sido sospechoso de laicismo para los movimientos islámicos, enfrentándose a los mismos en numerosas ocasiones.

 

La búsqueda de un nacionalismo socialista le llevó a una neutralidad teórica en política exterior, no alineándose a las corrientes europeas.

 

Michel Aflaq, ante occidente, se opone resueltamente, por ser sus potencias coloniales las que un día explotaron a los árabes, impidiendo su unidad. Tampoco se identificará con los países comunistas, pues el marxismo, su base ideológica, es contrario a los nacionalismos y, por ello, antiárabe.

 

Ante el comunismo, Aflaq muestra un absoluto desacuerdo que concretará en tres aspectos:

 

1. Frente al determinismo marxista, considera la revolución como un acto explosivo de libertad.

 

2. Frente al internacionalismo proletario, afirma el nacionalismo árabe.

 

3. Respecto al papel de la religión, Aflaq, en contra de lo afirmado por el marxismo, considera que moral y religión son valores fundamentales y eternos5.

 

Ello le llevará a que el partido BAAS en los años 40 y 50 sea profundamente anticomunista. Después, ya en el poder, establecerá algunas alianzas temporales con partidos comunistas, siguiendo la política de Frente Nacional. Pero dado que occidente apoya tradicionalmente a Israel, en particular los Estados Unidos, Aflaq considerará ya en 1.956 como lógica la convergencia con la Unión Soviética, al coincidir en su lucha contra el Estado de Israel y precisar de apoyos exteriores en ese sentido.

 

Ya en 1.971, Bitar analiza la situación del partido de forma muy crítica, afirmando que los jóvenes del mismo estudian al marxismo leninismo, no por convicción comunista, sino por la necesidad de una formación ideológica que el partido no había sido capaz de proporcionar6.

 

El BAAS en Siria.

 

Tras la independencia de Siria, se suceden numerosos gobiernos y golpes de estado.

 

Ya hemos visto que el BAAS nace en 1.947, de la mano de unos intelectuales y de una estrecha base humana de unos pocos cientos de militantes en toda Siria. Sin embargo, el BAAS logrará la adhesión de diversos oficiales del joven ejército sirio, en particular pertenecientes a la minoría alauita.

 

El dictador Shishakli cae en 1.954. Merced una alianza con diversos partidos, algunos baasistas entran en el gobierno, caso de Bitar.

 

De 1.958 a 1.961, tiene lugar la unión con Egipto en la R.A.U., lógica consecuencia del panarabismo preconizado.

 

A partir de 1.963, a raíz del golpe de estado que lleva al BAAS al poder, la influencia de los militares dentro del partido se hace patente.

 

En 1.964 Aflaq y Salah El Yedih se unen, eliminando a la corriente marxista encabezada por Saadi.

 

En 1.966 el ala de izquierda del BAAS encabezado por un militar, Salah El Yedih, mediante un golpe de estado retoma el poder en Siria. Aflaq y el resto de los fundadores históricos desaparecen del ejercicio del poder real. Los nuevos dirigentes, denominados neobaasistas al revisar algunos de sus planteamientos originales, se aproximan a la Unión Soviética en el plano exterior y en el plano ideológico, lo harán al socialismo científico. Pero, de forma paralela, se establece la alianza con la minoría alauita.

 

En 1.970 Yedih es desplazado en el poder por el actual presidente Hafed El Assad, quien desarrollará una política internacional de búsqueda de nuevos acuerdos.

 

Con la evolución política interior de Siria que ya hemos señalado, el BAAS arraiga fundamentalmente entre la minoría religiosa alauita. Se trata de una rama del chiísmo ismaelita a la que pertenecen en Siria menos del 20% del total de su población. Apoyados por la potencia colonial, Francia, mientras permaneció en Siria, reclutará entre esa minoría tropas aguerridas, que engrosarían fuerzas de choque. El ejército sirio, con la independencia, se apoyará en esta minoría, de la que forma parte el actual presidente Hafez Al Assad. Lógicamente, los Hermanos Musulmanes, sunitas, acogieron con absoluta desconfianza al nuevo gobierno. Pronto comenzarían los incidentes entre ambas fuerzas sirias7, especialmente en la ciudad de Hama, en la que se vivieron alzamientos ya en 1.963; también protagonizaron diversos atentados en diversas zonas del país, lo que en todo caso acarreó gravísimas represalias gubernamentales. La acción más grave tuvo lugar en 1.979, al producirse un atentado de los Hermanos Musulmanes contra la escuela de artillería de Alepo, que causó la muerte de 83 alumnos oficiales, alauitas. El régimen respondió con la práctica del terror. En 1.982 se vuelve a sublevar Hama, dominando toda la ciudad tras una dura lucha que generó varios miles de muertos.

 

El BAAS en Iraq.

 

El BAAS iraquí tiene su origen en otros grupos políticos anterirores: el Islah (reforma), que había apoyado al régimen pronazi de de Rashid Alí, Al Istiqlal (independencia), y el Partido Socialista Nacional de Salih Yaber8.

 

En febrero de 1.963 un golpe de estado lleva al poder al BAAS, que se encontraba dividido en varias fracciones. Pero el presidente de la República Aref, logra eliminar a los baasistas del gobierno.

 

En 1.968 el BAAS vuelve al poder de la mano de unos militares no baasistas. Se suceden las crisis dentro del gobierno y del partido BAAS. En 1.979, alcanza el poder Saddam Hussein, quien acumulará todos los cargos con poder real del gobierno, ejército y partido, logrando un poder absoluto hasta hoy.

 

Iraq se alineó inicialmente con los países árabes moderados, constituyendo un polo de atracción y muro de contención de los árabes ante el radicalismo chiíta del Irán. Dicho enfrentamiento generó una cruenta guerra con cientos de miles de víctimas de ambas nacionalidades. Pero, años después con la invasión de Kuwait, perdió el apoyo de casi todos los gobiernos árabes, salvo Jordania y Libia, y otros países musulmanes como Sudán..

 

Al igual que en Siria, el BAAS iraquí enraiza en una minoría, en concreto en el clan familiar de Sadam Huseim, de creencias sunitas. También encontraremos a algunos cristianos, como es el caso del muchos años ministro de asuntos exteriores Tarik Aziz (católico de rito caldeo).

 

Michel Aflaq en el ostracismo.

 

Hemos visto ante que el nacionalismo socialista del BAAS le llevará a vagas afirmaciones ideológicas, por lo que desarrollará gran movilidad táctica. Esta vía le permite rechazar toda asimilación a modelos occidentales, capitalistas o marxistas, optando por ello en el plano exterior con la no alineación, si bien por motivos tácticos, se aproximó en los años 70 al bloque soviético, lo que favoreció también el apoyo occidental al estado de Israel. Posteriormente, con los complejos avatares de la política nacional de Siria e Irak, y con un creciente protagonismo en ambos de los militares, los dos partidos BAAS en el poder se convierten en instrumentos de poder de dos personas y sus clanes familiares: Hafed el Assad en Siria y Saddam Husseim en Irak. En la actualidad, pese al origen ideológico común, ambos países se encuentran alineados en el plano internacional de forma diferente, habiendo desempeñado un papel muy distinto en ese sentido. Siria ha jugado la baza del radicalismo árabe frente Israel, intentando dominar al movimiento palestino, lo que no ha logrado, pero si que ha conseguido fraccionarlo, merced a la creación en su día del Frente de Rechazo ante la OLP de Arafat. Por otra parte, ha jugado la baza del Líbano en un doble sentido: el control del mismo a modo de protectorado y su utilización frente a Israel. Irak jugó inicialmente la baza de la moderación y de la contención del chiísmo persa. Pero evolucionó al radicalismo como una huida hacia delante a raíz de la aludida invasión de Kuwait.

 

Michel Aflaq es postergado en 1.966 en Siria a raíz de las diversas oscilaciones del poder en Damasco y de la radicalización que triunfó en la fracción baasista en el poder. Por ello, se trasladará a Irak, al formar parte de la Dirección Internacional del BAAS y al radicar allí un régimen baasista inicialmente moderado. Hemos visto que el BAAS iraquí tiene, en sus orígenes, varias tendencias. Una de ellas, la más derechista, es apoyada de alguna manera por Aflaq, pero en el futuro desarrollo del curso político en Iraq en los años siguientes, esa corriente es progresivamente desplazada por otros protagonistas. Con ello, la estrella de Aflaq dejó de brillar.

 

Pierde, con todo ello, protagonismo real en la dirección del BAAS.

 

Todavía en 1.977, el intelectual francés Jacques Benoist-Méchin, entrevista a Aflaq para su libro “Un printemps arabe”, pues constituyó una figura clave para entender el moderno nacionalismo árabe.

 

Muere en París el 23 de junio de 1.989. Su muerte pasó desapercibida para los medios oficiales sirios. Su camarada Salah Bitar había muerto, también en París donde se había exiliado, pero asesinado, hacía 9 años.

 

Michel Aflaq es producto de una época hiperideologizada. A raiz de sus estudios en Europa entra en contacto con las diversas ideologías en pugna. Nacionalista por su origen familiar, considerará que el socialismo es imprescindible para la superación del atraso social árabe, si bien pospondrá tal objetivo a la consecución de la unidad nacional. Sin una base ideológica muy firme (su socialismo era de formulación muy genérica y un tanto demagógica), por causas tácticas pactará con aliados ocasionales diversos, incluso con comunistas ortodoxos pro-soviéticos. En cualquier caso, intentó una síntesis ideológica original en la que, sin duda, pesó sus orígenes cristianos.

 

Y dada su postura moderada, dentro de la evolución histórica del BAAS, quedará marginado ante la evolución sufrida por dicho partido tanto en Siria como en Irak, que caerá bajo el control de minorías vinculadas al poder militar en ambos países, lo que supone un fracaso al ser contradictorio con las pretensiones populares del baasismo. De hecho, las luchas intestinas dentro del partido y la represión de los opositores políticos, generará en ambos países miles de víctimas.

 

Con todo, es de destacar un logro importante, consistente en que las minorías religiosas no musulmanas han disfrutado de cierta libertad de acción, tanto en Siria como en Irak, en comparación a las restricciones absolutas impuestas en otros países musulmanes como Arabia Saudita. Sin duda, ello es producto de la tendencia no confesional original del Baas.

 

El baasismo ha sido considerado como uno de los episodios más importantes acaecidos en la historia del mundo árabe a lo largo del siglo XX9. Incluso hoy día, la postura internacional de Irak ha sido tomada como referencia para diversos movimientos progresistas de toda esa área internacional, postura que es en buena medida coherente con los postulados doctrinales originales que contribuyó a estructurar Michel Aflaq.

 

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José Basaburua (Revista Nº 31)

 



1 Michel Aflaq. “El combate del destino unido”. 2ª edición. Beirut. 1.959. Pág. 53.

2 Así lo recoge Zidane Zeraoui. “Siria – Iraq. El Ba’th en el poder”. Universidad Nacional Autónoma de Méjico. 1.986. Pág. 7.

3 Hichem Djaït. “Europa y el Islam”. Ediciones libertarias. Madrid. 1.1.990. Pág. 116.

4 Michel Aflaq. “Selecciones de textos del pensamiento del fundador del partido Baas”. Madrid. 1.977. Pág. 12.

5 Según recoge Zidane Zeraoui. Obra citada. Pág. 12.

6 Según cita recogida por Zidane Zeraoui. Obra citada. Pág. 6.

7 Sobre la ideología de los Hermanos Musulmanes: “El despertar del Islam”. Roger du Pasquier. Desclee de Brouwer”.Bilbao. 1.992. Se recoge en dicho texto también el enfrentamiento con el baasismo en Siria.

8 Según Samir Amin en “La nación árabe. Nacionalismo y lucha de clases”. Citado por Zidane Zeraoui en el texto mencionado.

9 Hichem Djaït. Obra citada. Página 190.

mardi, 14 octobre 2008

le Grand Mufti et le nationalisme palestinien

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Ecole des cadres - SYNERGIES EUROPEENNES - Octobre 2008 - Lectures

Louis DENISTY :
Le grand mufti et le nationalisme palestinien
Hajj Amin al-Hussayni, la France et la Grande-Bretagne face à la révolte arabe de 1936-1939
préface de : Daniel Rivet
L'Harmattan , Paris - collection Comprendre le Moyen-Orient

Résumé

En 1936, éclate la première révolte arabe en Palestine, alors sous mandat britannique. Ce mouvement, entraîné par Hajj Amin al-Hussayni, revendique la constitution d'un Etat et l'arrêt de l'immigration sioniste. En s'appuyant sur les archives diplomatiques françaises et britanniques dont il fait une lecture croisée, l'auteur donne un éclairage sur cette période cruciale de l'histoire de la région.

Quatrième de couverture

En avril 1936 éclate la première grande révolte des Arabes de Palestine, qui revendiquent la constitution d'un Etat et l'arrêt de l'immigration sioniste. A la tête de ce mouvement s'impose un personnage, Hajj Amin al-Hussayni, Grand Mufti de Jérusalem. Celui-ci, banni par les Britanniques, trouve refuge au Liban où les Français le laissent jouir d'une liberté suffisante pour tenter de faire entendre la voix du peuple palestinien. Les querelles de personnes et l'incapacité des puissances dominant la région à s'entendre enfoncent la Palestine dans des années tragiques et ensanglantées. L'objet de cet ouvrage est de faire la lumière sur cette période peu connue et pourtant si cruciale de l'histoire de la Palestine, en questionnant les archives diplomatiques françaises et britanniques. Pour comprendre, pour expliciter, et non pour juger. Durant les années 1936/1939, avec la connaissance des soixante-dix années qui ont suivi, il apparaît que se mettent irrémédiablement en place tous les éléments dramatiques qui ont plongé, jusqu'à aujourd'hui encore, un peuple dans un abîme de malheur infini.

mercredi, 03 septembre 2008

R. Steuckers: entretien à "Militant" (1992)

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ARCHIVES: Un entretien de 1992, pour tous ceux qu'intéressent à l'histoire du mouvement identitaire et "néo-droitiste" (en dépit des variétés que cette appelation peut recouvrir). A noter, cet entretien a été accordé à Xavier Cheneseau quelques semaines avant la rupture définitive avec le "canal historique" (et hystérique) de la nouvelle droite centrée autour d'Alain de Benoist et au moment des accords de Maastricht. La donne internationale a considérablement changé depuis. Prière aux lecteurs de 2008 d'en tenir compte!

 

 

Entretien de Robert Steuckers à la revue «Militant»

 

I - Animateur de la «Nouvelle Droite», pensez-vous que votre mouvance a contribué à préparer le terrain pour le Front National, par exemple?

 

Je voudrais d'abord apporter une petite précision: je ne me sens ni ne me considère comme étant de «droi­te», même si j'ai souscrit à bon nombre d'ana­lyses posées par le mouvement d'Alain de Benoist, abusivement baptisé «Nouvelle Droite» par les milieux du journalisme parisien. Dans cette mouvan­ce, c'est essentiellement la «nouveauté» qui m'a sé­duit. Je ne crois pas que la «Nouvelle Droite» d'A­lain de Benoist et de Guillaume Faye ait préparé le terrain pour le Front National. Celui-ci a été porté par une dynamique qui lui est propre. Si le Front Na­tional s'était laissé inspirer par les thèses de la ND, il aurait choisi une orientation moins occiden­taliste et repris à son compte l'anti-américanisme gaul­lien; son programme économique n'aurait pas été directement calqué sur Reagan et Thatcher, mais aurait opté pour un dirigisme à la française (Déat, le néo-socialisme, le gaullisme) ou pour un auto-cen­tra­ge tel que l'a préconisé le grand économiste fran­çais François Perroux. Enfin, le poids de l'intégris­me catholique aurait été moins net dans la presse du FN, si le souffle du «paganisme néo-droitiste» l'a­vait touchée, paganisme qui, en dernière instance, est une religion de la Cité et un refus tranché de tou­te forme de cosmopolitisme.

 

2 - Ne pensez-vous pas que le succès relatif du lepénisme peut apparaître com­me un démenti cinglant à la stra­té­gie métapolitique?

 

Le succès électoral du FN, drôlement étrillé à cause des manipulations de la loi électorale, est une chose. La stratégie métapolitique en est une autre. Celle-ci n'a nullement perdu de sa validité, quand le FN a com­mencé son ascension. Par stratégie métapoli­ti­que, il faut entendre une volonté de réactiver des idées, des pratiques, des programmes, des faits d'his­toire, qui ont été refoulés par les idéologies do­minantes. Devant les effets du déclin, que nous cons­tatons tous, cette stratégie métapolitique possè­de des vertus réparatrices: elle permet, sur base d'u­ne documentation, d'une incessante combinaison de thèmes politiques et historiques, de critiquer les idéo­logies dominantes, d'en montrer les tares et les insuffisances qui conduisent à des faillites reten­tis­santes, ce que prouvent des faits comme la désin­dustrialisation de l'Europe, le chômage de masse, le déclin démographique, l'incapacité de construire une défense européenne cohérente et de fédérer les a­touts industriels de notre continent, et, enfin, le lais­ser-aller généralisé, que les sociologues contempo­rains ont appelé l'«ère du vide» de la «bof-gene­ra­tion». Le FN a obéi à une toute autre logique que celle de la «métapolitique» d'Alain de Benoist: il a réac­tivé les clivages de la IVème République, re­nonçant ainsi à prendre acte des potentialités de l'ère gaullienne: organisation de la société française selon les critères de la «participation», orientations diplo­matiques de Troisième Voie (dialogue euro-arabe, re­lations avec l'Amérique Latine, avec la Chine, l'URSS, l'Inde, etc.), indépendance militaire et nuc­léaire, centrage de l'économie (Elf-Aquitaine), grands projets technologiques (Concorde), etc. La ND, quant à elle, n'a peut-être pas assez insisté sur ces réalités, bien que les livres de Faye constituent un bon tremplin didactique pour les réinjecter dans le débat.

 

3 - Partisan d'une Europe indépen­dan­te, vous préconisez une économie au­to-centrée. Pouvez-vous dire pourquoi et comment vous comptez y arriver?

 

L'idée d'un auto-centrage de notre continent est as­sez ancienne et, dans la littérature économique, elle est récurrente. Je songe aux projets de Friedrich List (1789-1846), qui fut l'artisan du Zollverein alle­mand et des politiques protectionnistes américaines, à l'œuvre d'Anton Zischka, qui traverse le siècle, et aux théories de François Perroux, qui a démontré les atouts du centrage des économies et la nécessité, pour le bon fonctionnement de celles-ci, d'une ho­mo­généité culturelle. C'est dans cette tradition multi­céphale, refoulée, radicalement différente de celles des idéologies dominantes, que je m'inscrit. Ce qu'il faut faire, sur base de ces théories? D'abord mi­liter pour la diffusion de ces alternatives cohé­ren­tes, non utopiques et, abandonner l'a priori anti-éco­nomie des «droites», qui rend leurs programmes to­talement inopérants à long terme. Ensuite, quand ces idées pratiques auront acquis une certaine notoriété, travailler à infléchir la logique actuelle qui est mon­dialiste, qui disperse les capitaux tous azimuts et dé­laisse l'investissement dans nos pays. A l'échelon eu­ropéen, nous nous ferons les défenseurs des fu­sions industrielles internes à notre continent. En clair, nous applaudirons à des fusions comme Ma­tra-Ericsson (le cas du contrat de la CGCT), comme Volvo-Daf, comme Peugeot-Mercedes et nous lutte­rons contre les fusions qui impliquent des parte­nai­res non européens, japonais ou américains. Cette idée, nous la partageons avec beaucoup d'Euro­péens engagés dans d'autres circuits politiques et idéo­logiques que le nôtre. Nous espérons que se réa­lisera un jour la fusion de ces bonnes volontés, en dépit des étiquettes actuelles.

 

4 - La politique euro-arabe préconisée par Benoist-Méchin vous paraît-elle tou­jours applicable?

 

Le monde arabe est pluriel, malgré la force unifi­ca­trice de l'Islam ou les nostalgies nasseriennes. Le rô­le de l'Europe est de jouer la conciliation entre les parties, sans imposer quelque politique que ce soit. Les Arabes sont nos voisins et, si nous sommes réa­listes, nous devons bien admettre qu'il faut s'enten­dre avec eux pour éliminer, chez nous, les effets né­ga­tifs de Yalta. La logique des relations euro-arabes futures ne saurait plus être de type colonialiste, puis­que les Arabes disposent désormais de solides atouts dans leur jeu: pétrole, démographie en haus­se, identité politique, grands espaces. L'Europe, mal­gré son déclin démographique préoccupant, pos­sède encore et toujours les cerveaux techniciens et une infrastructure industrielle remarquable, qui a be­soin de débouchés. Les Arabes ont intérêt à s'en­ten­dre avec les Européens plutôt qu'avec les Amé­ri­cains qui financent une tête de pont dans leur es­pa­ce, Israël, qui bafoue leur dignité et ne serait pas via­ble sans cette aide. Des opérations comme l'orga­nisation de la téléphonie saoudienne par les Suédois d'Ericsson, la vente d'appareils militaires français, la reconquête des zones désertifiées en Algérie par une équipe du Baden-Wurtemberg, les pourparlers (tor­pillés) entre Belges et Libyens ou entre Français et Irakiens en matières nucléaires, les bonnes rela­tions commerciales que continue à entretenir la RFA avec l'Iran, sont autant d'opportunités qui s'offrent à nos pays de sortir de la logique binaire de Yalta, de s'affranchir des dépendances économiques impo­sées par les réseaux transnationaux téléguidés de­puis Washington et d'accroître leurs potentiels in­dus­triels. A la logique de Benoist-Méchin, qui, mal­gré son passé collaborationiste, a infléchi la politi­que de la Vème République dans un sens arabo­phi­le, doit s'ajouter la logique de Zischka, qui en 1952 avait ébauché un plan de reconquête et de renta­bi­lisation du Sahara, plan que les politiciens médio­cres de notre après-guerre n'ont pas retenu (cf. Anton Zischka, Afrique, complément de l'Europe, Laffont, 1952). L'industrialisation et la refertili­sa­tion des zones sahariennes exigeront beaucoup de main-d'œuvre et les immigrés maghrébins d'Europe pourraient y pourvoir. L'immigration, qui crée un an­ta­gonisme euro-arabe compréhensible, est un fruit du libéralisme économique: cette idéologie a tou­jours rejeté les planifications audacieuses, comme cel­les de Zischka, parce que, par idéalisme irréaliste, elle ne reconnaît pas le primat du politique. Le retour à un planisme grandiose permettrait de règler la ques­tion de l'immigration dans un sens positif. Le pé­trole des Libyens et des Saoudiens pourrait large­ment financer des projets agricoles et industriels de ce type. Les fermes libyennes, irriguées selon des pro­cédés modernes, sont d'ores et déjà des modèles du genre.

 

Autre écueil à éviter: prendre parti pour une et une seule idéologie arabe, au détriment de toutes les au­tres. Les Européens, dans leur politique arabe, ne doi­vent privilégier aucun interlocuteur: ni les nassé­riens, ni les intégristes, ni les baathistes, ni les frè­res musulmans, ni les Libyens, ni les Irakiens mais vi­ser la conciliation de tous sans s'immiscer dans les affaires intérieures des pays arabes.

 

5 - La Turquie, Israël, les pays d'Afrique du Nord ont demandé à rejoindre la CEE. Que vous inspirent ces deman­des?

 

On ne crée pas un espace économique auto-centré sans homogénéité culturelle. Les différences entre le Nord et le Sud de l'Europe, entre les pôles latin et germanique, entre les Britanniques et les Continen­taux, etc. rendent le fonctionnement de l'Europe des 12 déjà fort problématique. Si l'on y adjoint le Ma­ghreb et la Turquie, le chaos sera à son comble. Tout centrage économique sans homogénéité cultu­relle conduit à une logique implosive, à un dérè­gle­ment généralisé. Au nom des impératifs géopo­liti­ques, la Turquie et les pays du Maghreb doivent de­venir des alliés de l'Europe, dans des sphères voi­si­nes, intégrées selon les mêmes règles de l'auto-cen­trage. La Turquie, dont l'opposition politique à Tür­güt Özal ne veut pas de la CEE, a intérêt à rejouer un rôle «ottoman» au Proche-Orient et à renouer avec la Syrie, l'Irak et l'Iran, en dépit des conflits récents. Tout axe diplomatique optimal pour la Turquie s'o­riente vers le Golfe Persique, alors que l'axe occi­den­tal, choisi par Özal, conduirait Ankara à n'être qu'un appendice mineur de la CEE, mal industrialisé et incapable de tenir devant les concurrences ouest-eu­ropéennes. Les Nord-Africains, eux, doivent jouer la carte du Grand Maghreb et refuser que leurs ressortissants ne deviennent les nouveaux esclaves de l'Europe industrialisée. L'Europe doit, pour sa part, tolérer l'expansion des Etats nord-africains vers le sud et, en tant que non français, je déplore l'ac­tion retardatrice que joue sur ce plan l'armée fran­çaise au Tchad, faisant ainsi le jeu des Amé­ri­cains, ennemis de toute forme de rassemblements con­tinentaux ou sub-continentaux. Quant à Israël, un seul choix s'offre à lui, qui s'articule comme suit: renoncer à son rôle de tête de pont de l'im­pé­ria­lisme américain en Méditerranée orientale, s'en­ten­dre avec les Palestiniens comme le préconisent les di­plomates européens et l'Internationale Socialiste (cf. la récente visite d'Arafat à Strasbourg), dia­lo­guer avec les Turcs soucieux d'orienter leur diplo­matie dans un sens ottoman. L'option CEE n'est pas un remède pour Israël: en effet, comment pourrait-il y vendre ses fruits devant la concurrence espagnole? De plus, il serait excentré et détaché artificiellement de son voisinage. La faiblesse géographique de l'E­tat hébreux le rend inviable à long terme, a fortiori quand la démographie palestinienne minorise déjà le peuplement juif. Les élites israëliennes, comme les chrétiens du Liban, ont intérêt à réviser leur sio­nis­me ou leur particularisme dans la perspective d'un néo-ottomanisme: c'est pour eux une question de vie ou de mort politiques.

 

6 - L'Acte Unique européen vous paraît-il une bonne base de départ pour l'Em­pire européen à construire?

 

Votre question n'autorise pas de réponse tranchée. L'Ac­te Unique aura pour conséquence d'éliminer des secteurs viables sur le plan national mais aussi des tares locales anachroniques. L'Acte Unique fa­vo­risera les grandes entreprises capitalistes au dé­triment des PME mais créera simultanément des ins­titutions permettant une plus grande mobilité d'ac­tion pour tous. Nous restons conscients du fait que la CEE a été créée jadis pour faciliter la pénétration en Europe des capitaux du Plan Marshall mais que l'idée d'une unité continentale et d'une intégration éco­nomique est plus ancienne et ne provient pas des Etats-Unis. Le défi à affronter, complexe et à fa­cet­tes multiples, est donc le suivant: choisir une poli­ti­que d'auto-centrage mais ne pas confisquer à cer­tains Européens les relations privilégiées qu'ils en­tretiennent avec des Etats européens non membres de la CEE. Le «grand espace» de 1992 ne sera pas d'emblée un paradis, un bijou politique. Le risque d'un gigantisme stérilisant demeure, donc cette Eu­ro­pe en gestation ne doit pas se considérer comme achevée; elle doit être ouverte à toutes les candida­tu­res européennes, fermée aux candidatures non euro­péennes. Prenons quelques exemples: la Suède et la Norvège comptent des industries de pointe remar­quables, avec lesquelles les grands consortiums eu­ro­péens ont intérêt à s'entendre plutôt qu'avec des équi­valents japonais ou américains. La RDA est mem­bre du COMECON mais, par le biais des rela­tions inter-allemandes, elle constitue aussi, officieu­se­ment, le treizième Etat de la CEE; la RFA, à partir de 1992, ne devra pas renoncer à ses liens spéciaux avec la RDA ni avec les autres pays de l'Est euro­péen, car cette situation est l'amorce d'un élargisse­ment généralisé à toute l'Europe. La Grèce souhaite, pour sa part, une accentuation des relations inter-bal­kaniques. Toutes ces dynamiques et ces syner­gies, dont l'impact dépasse le cadre territorial de la CEE, ne seront possibles que quand disparaîtra l'OTAN et l'inféodation à Washington, car sinon ja­mais les Suédois, les Suises, les Autrichiens et les Yougoslaves, qui détiennent des zones cruciales en Europe, ne pourront participer à la construction de notre continent. Mes amis et moi-même, qui consti­tuons une forme de pôle germano-belge de la ND eu­ropéenne, avons souvent été accusés de pro-so­vié­tisme par des camarades français. Nous consta­tons, en revanche, que ces accusateurs sont frappés d'une étrange myopie historique et réduisent l'Eu­rope au territoire de la CEE ou à celui de l'OTAN. A l'heure où la perestroïka  de Gorbatchev est avant tou­te chose un aveu d'impuissance économique, le danger ne vient plus prioritairement de l'Est. Il vient des concurrences capitalistes extra-continentales. Le danger soviétique ne redeviendra primordial que si l'Eu­rope actuelle, celle des libéraux et des mar­chands, reste sur ses positions et refuse les dy­na­mi­ques que je viens d'évoquer. Les Russes n'auront plus qu'une solution: reconduire leur vieille alliance avec l'Amérique. Car il faut savoir que la Russie ne pactice qu'avec le plus fort: avec l'Amérique comme pendant la Guerre de Sécession  —ce qu'avait prévu Tocqueville en 1834—  ou sous Roosevelt (de 1941 à 1945) et Khroutchev (de 1959 à 1962); avec l'Allemagne (de 1939 à 1941) ou l'Europe unie quand celles-ci sont puissantes et fermes.

 

En conclusion, l'Acte Unique peut être le meilleur ou le pire: espérons au moins qu'il balaiera les ana­chronismes nationaux, portés par des politiciens sans envergure, sans mémoire historique et, surtout, sans vision d'avenir grandiose.

 

samedi, 17 mai 2008

La doctrine du "Grand Maroc"

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Communiqué de "Democracia Nacional" (Barcelone)- 17 juillet 2002

Avertissement de 2008: Ce communiqué du groupe "Démocratie nationale" (Barecelone) mérite toujours, six ans après les événements, une lecture attentive car il recèle des vérités géopolitiques indépassables.

La doctrine du "Grand Maroc" et la guerre qui va éclater

Ce matin, 17 juillet, quand l'agence de presse espagnole a diffusé la nouvelle à 8 heures qu'une force opérationnelle spéciale de l'armée espagnole avait occupé l'Ile du Persil (Perejil), notre pays a vécu un moment d'allégresse et d'union nationale, sauf les marginaux de toujours (IU, ERC) et les nationalistes basques qui estiment que tout ce qui nuit à l'Espagne leur profite. L'Espagne a récupéré sa dignité nationale bafouée, mais, inévitablement, le pire reste à venir car la crise qui oppose l'Espagne au Maroc n'a pas cessé pour autant. Car, une chose est certaine, le Maroc cherche délibérément la guerre.

La doctrine du "Grand Maroc"

Quand, au début des années 50, le Sultan du Maroc obtient l'indépendance de son pays, le moteur idéologique premier du mouvement indépendantiste est l'Istiqlal, un parti nationaliste marocain. Son fondateur, El Fassi, avait élaboré au Maroc pendant la seconde guerre mondiale un programme de type nationaliste qui lui a valu d'être surnommé le "Sabino Arana" marocain, du nom d'un théoricien du nationalisme basque. En effet, sa doctrine, d'un point de vue espagnol, n'est pas moins délirante que la doctrine nationaliste basque.

El Fassi, se référant à des interprétations historiques d'une rigueur plus que douteuse, soutenait la thèse d'une suprématie marocaine, appelée à transformer le pays en une puissance régionale en Méditerranée occidentale. Il appelait cette doctrine celle du "Grand Maroc", une fiction géopolitique finalement assez absurde.

Le rayon d'action de ce "Grand Maroc" hypothétique englobait le Sahara occidental, la frange littorale d'Ifni, Ceuta, Melilla et les îles adjacentes, les territoires de Tindouf et de Colomb Bechar dans l'Ouest de l'Algérie, la totalité de la Mauritanie et une partie importante du Mali, ainsi que la plate-forme continentale des Iles Canaries.

Cette idée délirante n'a pas inspiré que le parti Istiqlal, mais a imprégné tout le processus de formation de l'Etat marocain jusqu'à ce que l'idée du Grand Maroc soit partagée aujourd'hui par toutes les forces politiques du pays, depuis les progressistes de l'Union Nationale des Forces Populaires jusqu'aux socialistes.

La marche vers le "Grand Maroc"

Tous les événements politiques provoqués par le Maroc au cours de la seconde partie du 20ième siècle ne sont pas dissociables de l'idée de "Grand Maroc". En certaines occasions, certaines de ces démarches revêtent un caractère spectaculaire, comme l'annexion de Villa Bens en 1958, d'Ifni en 1969 et du Sahara en 1975. Ou se terminent par des échecs retentissants, comme la guerre de 1957-58 qui a visé l'annexion du Sahara occidental et d'Ifni, ainsi qu'à terme l'annexion de la Maurétanie toute entière. Autre échec cuisant : le Maroc a cultivé l'intention d'inclure dans son territoire national une partie de l'Algérie lors de la guerre dite des "sables mouvants" en 1963. Finalement, nous avons l'épisode tout récent de la prise de l'Ile du Persil, rapidement reconquise par les Espagnols.

Les différents gouvernements espagnols, y compris ceux du temps de Franco, n'ont jamais pris en compte le projet de l'Istiqlal ni pris au sérieux la politique expansionniste du Maroc. Dès que la transition du régime franquiste à la monarchie parlementaire et constitutionnelle a été achevée, il a été impossible de trouver en Espagne des diplomates capables de comprendre le problème, malgré le fait que dans la salle du trône du palais royal marocain on pouvait voir une carte du "Grand Maroc", sur laquelle, bien évidemment, les Canaries apparaissaient comme faisant partie du Sultanat du Maghreb.

Il est toute aussi impensable que Juan Carlos I, qui a rendu visite tant de fois à son homologue alaouite, ne connaissait pas cette carte. Il est curieux également de constater que, tandis que les forces armées espagnoles continuaient à élaborer des plans d'opérations pour un éventuel "front sud", les différents gouvernements démocratiques (de l'UCD, du PSOE et du PP) ont toujours eu une politique de la main tendue à l'endroit de ce gouvernement marocain qui ne cachait pas ses intentions de s'approprier des territoires espagnols. Cette situation insolite nous force à méditer ici une phrase de Carl Schmitt: «Si tu prétends être l'ami de ton ennemi et que celui-ci continue à te considérer comme son ennemi, alors tu es perdu».

Le Maroc cherche la guerre

En 2001, le Maroc a acquis 20 chasseurs bombardiers YF-16 à nos "amis américains" (ndlr: via l'Arabie Saoudite). Peu de temps après cet achat, on apprend que le Maroc acquiert également une quantité énorme d'armes légères, comme des canons sans recul et des mortiers. Tout ce matériel semble à première vue inutile et surtout inapproprié pour combattre le Polisario. Il s'agit bel et bien d'un matériel destiné à combattre une puissance terrestre, en l'occurrence la seule puissance voisine qui pourrait s'opposer à la mise en pratique de l'idée du "Grand Maroc".

Il nous paraît important de ne pas perdre de vue la façon dont ces achats se sont réalisés. Tout ce matériel a été acheté avec l'aval des monarchies les plus réactionnaires du Golfe Persique, qui ont pour point commun, avec le Maroc, d'être les alliées des Etats-Unis!

Que s'est-il ensuite passé? Un jeune roi immature et un gouvernement corrompu commencent ensemble une aventure insensée. Mohammed VI, qui ignore les lois de la politique, veut se muer en un nouveau monarque des "pétro-dollars". Sa "simplicité" mentale l'induit à croire que quelques petits puits de pétrole forés dans les sables du désert vont lui apporter des richesses considérables, grâce à l'entremise des sociétés pétrolières américaines. Il pense que dorénavant, le Maroc ne va plus dépendre de ses exportations de fruits citriques et de haschisch en direction de l'UE et que son économie ne va plus cruellement dépendre des devises envoyées par les deux ou trois millions de travailleurs marocains dispersés à travers l'Europe. Le petit roi Mohammed VI croit qu'il deviendra très bientôt un nouveau monarque des mille et une nuits, un nouvel émir du pétrole. La crise marocaine actuelle ne s'explique que par l'immaturité politique et les faiblesses psychologiques personnelles de ce drôle de petit roi.

Encore plus surprenant, dans le contexte qui nous préoccupe : on construit en ce moment même, dans les chantiers navals espagnols, des bateaux pour la flotte ennemie! Toujours plus surprenant : les immigrés marocains sont admis sur le territoire de l'Union Européenne comme s'ils étaient les ressortissants d'un pays associé et ami. Les événements récents nous l'ont prouvé : il n'en est rien ! Car, tout concourt à affirmer que le Maroc cherche bel et bien la guerre.

La France modifie ses positions

Au cours de cette crise récente, la position de la France a considérablement varié par rapport aux crises antérieures. Jusqu'ici la politique française a consisté à préférer un Maroc francophile, renforcé par l'incorporation du Sahara, à un Sahara indépendant et hispanophile. Pour rappeler le passé, disons que dans toutes les péripéties coloniales du 19ième siècle et des débuts du 20ième, la politique française a cherché à affaiblir l'Espagne. Mais au cours de ces derniers mois, nous avons assisté à un changement de cap, notamment après le 11 septembre 2001

[ndlr: Pas si sûr! Le refus d'entériner la note de la présidence danoise —arrogance inadmissible à l'égard du Danemark et ingérence intempestive dans la bonne marche des institutions européennes—  montre que le Maroc et son roitelet de carnaval peuvent encore compter sur l'appui de Paris, qui reste, comme le prouve une quantité d'écrits quasi officiels, hostile à Vienne et à Madrid, capitales jugées "traditionnelles", de même qu'à des entités comme la Flandre et la Croatie. Cf. l'ouvrage écœurant et scandaleux d'une dame, Annie Lacroix-Riz, professeur à Toulouse-Le Mirail et spécialiste du Maroc (!); cet ouvrage est intitulé Le Vatican, l'Europe et le Reich de la première guerre mondiale à la guerre froide, Armand Colin, Paris, 1996. Si les nationalistes basques et marocains délirent selon nos amis espagnols, ces délires, à coup sûr, n'arrivent pas à la cheville de ceux que profère cette dame Lacroix-Riz! Cet ouvrage franchement insultant, purement propagandiste, s'attaque avec une rare violence à l'Allemagne, au Vatican, à l'Espagne, à l'Autriche, à l'Allemagne, à la Belgique (et, avec une haine qui laisse pantois tout en étant carrément raciste, à sa majorité flamande et au roi Léopold III), à la Pologne, à la Roumanie, à l'Italie et à la Hongrie. Ce bréviaire hallucinant de la haine jacobine à l'égard de tous les peuples européens a reçu une consécration universitaire imméritée et, de ce fait, sert de référence à des hauts fonctionnaires et à des diplomates français. Ce qui se passe de commentaires et explique parfaitement les campagnes haineuses de la presse française  —et pas seulement de la presse!— contre l'Autriche, la Croatie et l'Italie, auxquelles nous avons assisté au cours de ces deux dernières années. Depuis François I, rien n'a changé : l'Europe est toujours l'ennemi pour Paris, en dépit de la construction européenne, et l'Islam (ou une fraction organisée de celui-ci) reste, dans tous les cas de figure, l'allié privilégié; dans un tel contexte, l'"anti-racisme" de la pensée unique sert à diaboliser tout ce qui est européen, à empêcher les braves Français de souche de s'identifier et de se solidariser avec leurs voisins et à présenter sous un jour idyllique et parfaitement abstrait l'allié extra-européen, qui qu'il soit; s'il existait des Martiens ou des Vénusiens qu'on pourrait mobiliser contre le reste de l'Europe, on les présenterait sous des traits dithyrambiques, tout en stigmatisant tous les autres de "fascistes" ou de "nazis", ce qui est le cas : Russes, Hongrois, Autrichiens, Danois, Flamands, Hollandais, Suisses, Italiens, Croates, Serbes, Macédoniens, Espagnols encaissent régulièrement dans la presse parisienne ces épithètes dénigrantes, parfois modernisées en "populistes"; notons que les peuples africains ou asiatiques qui ont l'heur de déplaire aux tenants de cette idéologie criminelle, subissent, eux aussi, des campagnes de haine, comme ce fut le cas des Tutsis nilotiques en Afrique centrale, victimes d'un génocide planifié par les alliés de Mitterrand, que la Belgique officielle, titubant d'une sottise à l'autre, a entériné, elle aussi].

La France a compris qu'elle perd désormais la partie dans le Maghreb. Les Etats-Unis se sont substitués à elle —et à marche forcée—  comme le principal allié et client au Maroc. La France commence à comprendre que les Etats-Unis sont une puissance qui est aujourd'hui une concurrente et qui demain sera ennemie. Comprendra-t-elle que ses attitudes devront dans l'avenir éviter de créer des tensions à l'intérieur de l'UE. La France commence à comprendre qu'elle a perdu la partie en Afrique du Nord.

Quoi qu'il en soit, l'UE et particulièrement l'Espagne et la France savent désormais que nous faisons tous face à une problématique identique : au fanatisme alaouite qui vise à construire son "Grand Maroc", à la course aux armements que l'on observe au Maroc grâce à l'appui financier des principaux alliés arabes des Etats-Unis dans le Golfe et… à cette cinquième colonne potentielle que constituent les deux ou trois millions de citoyens marocains résidant en Europe occidentale.

Le rapatriement de ces contingents d'immigrés, une position de force devant les territoires menacés et la menace de couper les liens commerciaux unissant l'UE au Maroc sont les uniques éléments qui pourront à terme couper les racines du rêve insensé du "Grand Maroc".

DEMOCRACIA NACIONAL (Barcelone).